La decisione in commento (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014 n. 8510) nasce da un ricorso della società “Cave Ponte” che domandò alla Corte di Cassazione, tra gli altri quesiti, se il ius variandi previsto dall’art. 1453, co .2, c.c. abilitasse l’attore non solo alla modifica della domanda di adempimento in domanda di risoluzione, ma anche all’introduzione della richiesta risarcitoria del danno da risoluzione.
A tale riguardo, il silenzio della norma aveva, invero, generato un contrasto giurisprudenziale, giacché l’orientamento prevalente sostiene l’impossibilità di estendere la deroga al divieto di mutatio libelli «alle domande di risarcimento consequenziali, rispettivamente, a quelle di adempimento e di risoluzione» (cfr. di recente Cass. 23 gennaio 2012, n. 870; Cass. 16 settembre 2009, n. 13953 e in dottrina M. Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in I contratti in generale, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, t. 2, Torino, 2006, p. 1746), mentre altre pronunce preferiscono la soluzione affermativa (cfr. Cass., 31 ottobre 2008, n. 26325; vedi anche Cass., 27 novembre 1996, n. 10506; Cass., 27 maggio 2010, n. 13003).
Di conseguenza, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione rimise la questione alle Sezioni Unite, le quali, in linea con l’indirizzo da ultimo menzionato, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui «La parte che ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento contrattuale» (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014 n. 8510).
La pronuncia dei giudici di legittimità va condivisa per quanto riguarda la ricostruzione dei rapporti tra le tutele previste dall’art. 1453, ma non risulta del tutto soddisfacente sul piano delle conseguenze e ciò in quanto la Corte di Cassazione non trae dalla costruzione delineata le dovute conseguenze sul piano risarcitorio. La sentenza in esame offre l’occasione di approfondire il ruolo rivestito dal risarcimento del danno all’interno delle diverse tutele contemplate dall’art. 1453 c.c.
In altra sede si è tentata di dimostrare la portata innovativa legata all’introduzione della disposizione in esame nel codice del ’42 (A. Montanari, Il danno da risoluzione, Napoli, 2013, 9-61). L’art. 1453 c.c. deriva dalla maggiore attenzione riservata dal nuovo codice alla tutela del contratto. Diversamente dal codice del 1865, il contratto non viene più trattato come un tutt’uno indistinguibile dall’obbligazione, esso assume rilevanza piuttosto quale piano di giurificazione degli interessi delle parti per il raggiungimento di uno scopo. Nel codice del ’42 il contratto va inteso, quindi, come il programma delle parti per il soddisfacimento di un determinato assetto di interessi la cui realizzazione dipende dalle diverse tipologie di effetti che il contratto stesso può generare: l’obbligazione, l’obbligo di protezione, il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale e, ancora, la garanzia. Tutto ciò trova conferma nella definizione di contratto come «rapporto giuridico» (art. 1321 c.c.) e non già come «vincolo giuridico» (art. 1098 c.c. 1865), che sotto il codice abrogato veniva inteso come accordo generatore esclusivamente di obbligazioni, e nella nozione di oggetto del contratto, il quale viene identificato in modo “neutro”, per così dire, con la prestazione (Al riguardo cfr. R. de Ruggiero, Istituzioni di diritto civile7, III. Diritti di obbligazione. Diritto ereditario, Messina-Milano, 1935, 241-242; F. Messineo, voce Contratto (dir. priv.), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 817; G. Osti, voce Contratto, in Noviss. digesto italiano, IV, Torino, 1959, 468).
Quest’assunto influisce sulla lettura del quadro di tutele contemplato dall’art. 1453 c.c., il quale non può non tener conto della diversa prospettiva da cui viene regolato il contratto. E ciò trova conferma nel fatto che la disposizione in commento assegna le tutele dell’adempimento e della risoluzione al contratto con prestazioni corrispettive, categoria sconosciuta al codice abrogato e che allude al contratto quale strumento produttivo di prestazioni e non esclusivamente di obbligazioni (cfr. M. De Simone, Il contratto con prestazioni corrispettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 26 ss.; G. Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, Milano-Varese, 1960, 10 ss.; A. Pino, Il contratto con prestazioni corrispettive. Bilateralità, onerosità e corrispettività nella teoria del contratto, Padova, 1963, 39 ss.).
In questo senso, l’adempimento e la risoluzione vanno intesi quali mezzi di tutela che reagiscono alla mancata attuazione del programma contrattuale, sicché appare riduttiva la lettura dei rimedi in parola dalla specola esclusiva dell’inadempimento dell’obbligazione (così invece ex multis L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, III. L’attuazione, Milano, 1948, 238; C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, Art. 1218-1229, in Comm. cod. civ., diretto da A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1979, 162 ss.; A. Belfiore, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1316 ss. Contra M. Giorgianni, L’inadempimento. Corso di diritto civile3, Milano, 1975, 312 ss., 320 ss.; M. Costanza, sub art. 1456, in L. Nanni – M. Costanza – U. Carnevali, Della risoluzione per inadempimento, Art. 1455-1459, in Comm. cod. civ., diretto da A. Scialoja e G. Branca, a cura di F. Galgano, I, 2, Bologna-Roma, 2007, 62 ss. spec. 64; A. di Majo, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, 207 ss.; F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 145, il quale segnala l’atecnicità dei termini «inadempimento» e «obbligazioni» utilizzati all’art. 1453 c.c. nella rubrica, il primo, e nel corpo del testo, il secondo).
Le tutele ora menzionate riflettono, in realtà, i due interessi antitetici che animano la vicenda contrattuale, la cui dialettica prosegue anche successivamente alla proposizione della domanda per l’adempimento o per la risoluzione. In sede processuale assumono rilievo, infatti, sia l’interesse sottostante all’azione proposta dalla parte c.d. fedele sia l’affidamento che tale azione ingenera nella controparte inadempiente (art. 1453, co. 2 e 3, c.c.).
Il secondo comma dell’art. 1453 c.c. sancisce il significato della domanda di risoluzione quale manifestazione della mancanza di interesse del contraente fedele all’esecuzione del contratto. Ne consegue la liberazione per la parte inadempiente dalla possibilità di essergli domandato successivamente l’adempimento: il legislatore attribuisce rilevanza all’affidamento della parte inadempiente generato dalla domanda di risoluzione, impedendo al contraente fedele di domandare successivamente l’adempimento. Diversamente, se la parte fedele agisce per l’adempimento può in corso di causa, e secondo la giurisprudenza prevalente anche in sede di gravame, modificare la domanda e chiedere la risoluzione. (Sulla possibilità di domandare l’adempimento successivamente alla domanda di risoluzione la dottrina non è pacifica: cfr. Ros. Alessi, Risoluzione per inadempimento e tecniche di conservazione del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 67; Luminoso, sub art. 1453, cit., 39; G. Auletta, Risoluzione e rescissione dei contratti. A) Risoluzione per inadempimento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 641 ss. e ivi, 1949, 170 ss.; M. Giorgianni, In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, in Contratto impr., 1991, 68 ss.; C. Consolo, Il processo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Riv. dir. civ., 1995, 299-344; M. Dellacasa, Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio, Torino, 2013, 334-335).
Tutto ciò mette in risalto il ruolo assegnato alla risoluzione di tutela «estrema» contro la violazione contrattuale e la peculiare effettività conseguentemente attribuita alla forza vincolante del contratto con prestazioni corrispettive. La domanda di adempimento può essere proposta, infatti, in base alla mera inesecuzione della prestazione, mentre la risoluzione risulta subordinata alla verifica che tale inesecuzione provochi una frustrazione di non scarsa importanza per la parte fedele dell’assetto di interessi consacrato nella lex contractus (art. 1455 c.c.). Ciò significa che si può verificare una violazione del sinallagma che giustifica sì l’azione di adempimento, ma non l’azione di risoluzione (sull’argomento cfr. tra gli altri A. di Majo Giaquinto, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, 427; G. Collura, Importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Milano, 1992, 37 ss.).
Sul piano giuridico assume, dunque, rilevanza l’interesse del contraente all’esecuzione del contratto finché la sua violazione non sia tale da compromettere in modo pressoché irreversibile l’operazione economica pattuita. E questo scarto tra violazione “semplice”, per così dire, e violazione qualificata giustifica la deroga posta dal secondo comma dell’art. 1453 c.c. alla regola processuale di cui all’art. 183 c.p.c. (nel senso di interpretare l’art. 1453, co. 2, c.c. non solo dalla prospettiva processualistica cfr. F. Rota, Dalla domanda di adempimento alla domanda di risoluzione, in Riv. dir. proc., 1990, 876-917).
Quest’ultima disposizione dà corpo, com’è noto, al c.d. principio di preclusione il quale consente l’individuazione sin dall’inizio del processo della questione controversa e evita l’allungamento eccessivo della fase di trattazione (cfr. ex multis F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II. Il processo di cognizione7, Milano, 2013, 31). Di conseguenza, l’impossibilità di agire per l’adempimento e successivamente di modificare la domanda, chiedendo la risoluzione, costringerebbe la parte non inadempiente a instaurare un nuovo procedimento per tale ultimo scopo.
Lo scarto tra violazione semplice e violazione qualificata cui sopra si è accennato e la consapevolezza che le vicende processuali medesime possono contribuire ad aggravare il vulnus lamentato hanno indotto il legislatore a prevedere la deroga di cui all’art. 1453, co. 2, c.c., abilitando l’attore alla modifica della domanda di adempimento in domanda di risoluzione nel corso del medesimo processo. Viceversa, non è possibile effettuare il contrario, ossia una volta chiesta la risoluzione non si può agire per l’adempimento, e ciò in quanto la domanda di risoluzione manifesta il non interesse al proseguimento del rapporto contrattuale e genera l’affidamento della parte inadempiente in questo stato di fatto. Sotto un diverso profilo, questa regolazione del rapporto domanda di adempimento-domanda di risoluzione conferma la tendenza del diritto dei contratti a privilegiare l’adempimento e a scongiurare il più possibile il ricorso alla risoluzione: la proposizione del primo non preclude mutamenti di strategia; la richiesta della seconda pone il contraente fedele nella situazione di poter accettare tutt’al più l’adempimento volontario della controparte in sede stragiudiziale (Sul principio di priorità logico-giuridica dell’adempimento in natura cfr. M. Giorgianni, Tutela del creditore e tutela «reale», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 620 ss.; S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 113 ss.; L. Mengoni, La responsabilitá contrattuale, in Jus, 1986, 128; A. di Majo, La tutela civile dei diritti4, Milano, 2003, 279 ss.; Piraino, Adempimento e responsabilità, cit., 1 ss. e passim; L. Nivarra, I rimedi specifici, in Europa dir. priv., 2011, 157-201. Al riguardo cfr. però le recente rilettura offerta da Dellacasa, Adempimento e risarcimento, cit., 295-308, 325-329 e passim).
Il quadro descritto rivela il ruolo complementare rivestito dal risarcimento del danno nell’ambito delle tutele approntate dall’art. 1453 c.c. In forza di quest’ultimo la violazione del contratto con prestazioni corrispettive innesca l’alternativa adempimento-risoluzione, «salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno». Il risarcimento completa la risposta all’esigenza di tutela generata dall’inattuazione del contratto: adempimento e risoluzione reagiscono, infatti, alla violazione del sinallagma, ma non tendono alla compensazione del danno che tale violazione ha arrecato alla parte non inadempiente.
Ne consegue una diversa modulazione del risarcimento del danno ex art. 1453 c.c. rispetto al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.: il primo reagisce al pregiudizio che residua dopo l’attivazione dei rimedi dell’adempimento o della risoluzione; il secondo risponde al danno inteso come surrogato della prestazione inadempiuta. Quest’ultima funzione non è additabile al risarcimento ex art. 1453 c.c., giacché la prestazione o risulta eseguita in natura o vi si è rinunciato tramite la risoluzione. Lo strumento risarcitorio completa, dunque, la tutela contrattuale, mirando alla compensazione, nel primo caso, del danno provocato dal ritardo nell’adempimento e, nel secondo caso, del danno provocato dal contratto, inteso in termini retrospettivi come vicenda storica dannosa per la parte fedele. In entrambe le ipotesi si tratta del danno c.d. consequenziale, il quale viene identificato dall’esperienza del common law nel pregiudizio che si aggiunge alla perdita della prestazione in sé considerata e ciò in contrapposizione al danno c.d. normale, che corrisponde, invece, al danno “immediato” provocato dall’inadempimento, corrispondente ad es. al differente prezzo di mercato del bene compravenduto (Nella dottrina di common law cfr. ex multis H.G. Beale – W.D. Bishop – M.P. Furmston, Contract. Cases & Materials5, Oxford, 2008, 706 ss. In Italia cfr. G. Smorto, Il danno da inadempimento, Padova, 2005, 87 ss.; di Majo, Le tutele contrattuali, cit., 167 ss.).
La peculiare funzione rivestita dal risarcimento ex art. 1453 c.c. implica l’impossibilità di ricorrervi in via principale, salvo che lo stesso risulti invocato in funzione sostitutiva della prestazione in natura. Il che si verifica in caso di inadempimento derivante da impossibilità per causa imputabile al debitore oppure qualora sia sopraggiunta la mancanza di interesse della parte a ottenere la prestazione in natura. In queste ipotesi il risarcimento funge da sostituto, per l’appunto, dell’adempimento in natura, tant’è che non libera la parte fedele dall’obbligo di eseguire la controprestazione. Di conseguenza, il ricorso al risarcimento sostitutivo non ne esclude l’ulteriore attivazione in funzione complementare (sul punto cfr. A. Belfiore, Inattuazione dello scambio per causa imputabile al debitore e tecniche di tutela del creditore: la conversione della prestazione in natura in prestazione per equivalente, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 227 ss.; A. Luminoso, sub art. 1453, in A. Luminoso – U. Carnevali – M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, Art. 1453-1454, in Comm. cod. civ., diretto da A. Scialoja e G. Branca, a cura di F. Galgano, I, 1, Bologna-Roma, 1990, 127 ss.; Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Tratt. del contratto, V. Rimedi, 2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, 115; Piraino, Adempimento e responsabilità, cit., 196 ss.; A. di Majo, L’adempimento “in natura” quale rimedio (in margine ad un libro recente), in Europa dir. priv., 2012, 1161 ss.).
Tali considerazioni conducono alla conclusione secondo cui la domanda di risarcimento ex art. 1453 rappresenta una richiesta complementare rispetto a quella di adempimento e di risoluzione. La questione è, quindi, se tale quesito possa essere inteso come una domanda da accorparsi a quella di risoluzione e se, conseguentemente, ad essa risulti estendibile la deroga predisposta dal secondo comma dell’articolo ora menzionato.
Il silenzio della disposizione al riguardo è stato colmato, come si è anticipato, dalla giurisprudenza prevalente che ha preferito escludere l’applicazione della deroga al divieto di mutatio libelli al risarcimento del danno.
Di contro, le Sezioni Unite in commento hanno sposato la soluzione affermativa e ciò muovendo dal carattere complementare del risarcimento rispetto alle azioni di adempimento e di risoluzione. L’assunto appare in parte convincente e risulta in linea con la ricostruzione del quadro delle tutele effettuata nei paragrafi precedenti.
L’art. 183 c.p.c. abilita, infatti, l’attore a proporre solo le domande e le eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dalla controparte. L’esigenza di economia processuale ha militato in favore del rafforzamento della necessità di definire la materia del contendere nell’udienza di trattazione, il che è avvenuto con la riforma del 2005. A tale riguardo, la deroga posta dall’art. 1453, co. 2, c.c. trova giustificazione nel ruolo – rammentato in precedenza – assegnato dal diritto sostanziale alle tutele dell’adempimento e della risoluzione, il che rende la deroga medesima in linea con il canone dell’economia processuale. La diposizione in parola evita, infatti, l’instaurazione di un nuovo giudizio volto alla risoluzione, la cui richiesta segue, per lo più, fisiologicamente l’infruttuosità dell’azione di adempimento.
Il risarcimento del danno completa la tutela contrattuale presupponendo l’espletamento delle tutele dell’adempimento o della risoluzione, il che prende corpo sul piano processuale nel nesso di accessorietà presente tra la domanda di risarcimento e quella per l’adempimento o per la risoluzione: la pretesa risarcitoria trova il suo titolo nella pretesa che forma oggetto della domanda per l’adempimento o per la risoluzione (giunge alla medesima conclusione anche C. De Menech, Mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto e pretesa risarcitoria avanzata in occasione della mutatio libelli, in Contratti, 2014, 131-135. Per la definizione di accessorietà fatta propria dalla dottrina processualcivilistica cfr. ex multis S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I. Disposizioni generali, Milano, 1959, 138, 329-339; L. Montesano – G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I. Principi generali. Rito ordinario di cognizione, Padova, 2001, 387-389.).
Il corollario ulteriore di quest’assunto va individuato nell’interpretazione estensiva dell’art. 1453, co. 2, c.c., nel senso che la possibilità di mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione include l’introduzione ex novo o la modifica della domanda accessoria per il risarcimento del danno. Questa soluzione appare suffragata, inoltre, dall’ulteriore argomento, suggerito da una dottrina autorevole, secondo cui il riferimento all’adempimento e alla risoluzione richiama implicitamente le tutele ad essi correlate: il risarcimento del danno sia nel caso dell’adempimento sia nel caso della risoluzione, e le restituzioni nel caso della risoluzione (così G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria in corso di giudizio purché congiuntamente con quella di risoluzione del contratto inadempiuto, in Riv. dir. civ., 2012, I, 603-604).
Viceversa, la soluzione restrittiva sostenuta dalla giurisprudenza prevalente muove dall’idea secondo cui la richiesta di risarcimento introduce un nuovo tema d’indagine rispetto a quella di risoluzione, sicché comprometterebbe l’economia processuale estendere anche al primo la deroga processuale prevista per la seconda (Cfr. da ultimo Cass. 23 gennaio 2012, n. 870). Questa tesi appare accolta anche da quelle proncunce che sposano sì la lettura estensiva, ma a condizione che i fatti dedotti a fondamento della domanda di risoluzione coincidano con quelli posti a sostegno della domanda di adempimento (Cass. Sez. Un. 18 febbraio 1989, n. 962; Cass. 9 marzo 2006, n. 5100; Cass. 19 luglio 2008, n. 20067). In altri termini, la causa petendi deve essere la medesima.
L’assunto tuttavia non convince.
Occorre precisare, infatti, che in realtà il mutamento di causa petendi e, quindi, l’introduzione di un nuovo tema d’indagine avviene già con la richiesta per la risoluzione (Così anche Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 604-605; nonché Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, § 9.1 la quale sul punto precisa che, se da un lato la successiva domanda di risoluzione non può fondarsi su un diverso inadempimento, dall’altro lato l’attore può dedurre i dati ulteriori a sostegno della non scarsa importanza “sopravvenuta” dell’inadempimento). E ciò quanto meno in base al fatto che tale mezzo di tutela presuppone una violazione contrattuale qualificata. Di conseguenza, una volta posta la deroga al divieto di mutatio libelli e dischiuse le porte ad un nuovo tema d’indagine appare francamente irragionevole vietare l’estensione della deroga alla domanda accessoria di risarcimento. Se tale estensione appesantisce, infatti, il procedimento, la proposizione di un nuovo giudizio appesantirebbe di certo e in modo maggiore la machinery processuale generalmente intesa. Il nuovo giudizio replicherebbe in parte il primo, richiedendo la valutazione delle ragioni poste a fondamento della risoluzione, degli effetti di questa, come ad es. le restituzioni, e, successivamente, la determinazione del quantum risarcitorio.
In definitiva, la non estensione del ius variandi anche al risarcimento del danno e, quindi, la necessità d’instaurare un nuovo giudizio in tal senso appare fuori segno rispetto ai principi di economia processuale, i quali condurrebbero peraltro, a seconda dei casi e dello stato del processo principale, alla riunione dei due procedimenti per ragioni di connessione (art. 31 ss. c.p.c.). L’assunto trova conforto, inoltre, nella tesi processualistica volta a scongiurare l’eccessivo formalismo nell’interpretazione della regola sul divieto di mutatio libelli, attribuendo rilevanza al principio di economia «ultraprocessuale». Ciò tramite lo sfruttamento efficiente delle potenzialità del giudizio promosso in precedenza per evitare l’instaurazione di inutili giudizi successivi (cfr. sul punto C. Gamba, Domande senza risposta. Studi sulla modificazione della domanda nel processo civile, Padova, 2008, 139-145).
L’argomentazione esposta confuta, come si è anticipato, anche l’orientamento che afferma la possibilità di mutamento ex art. 1453, co. 2, c.c. soltanto quando la causa petendi della richiesta di adempimento risulti la medesima della domanda di risoluzione. Quest’ultima implica, si ripete, un diverso accertamento e il motivo della deroga si basa non già sul fatto che la causa petendi è la medesima, ma perché la rilevanza attribuita alla dialettica tra gli interessi antitetici del contratto sul piano sostanziale continua su quello della tutela processuale (così anche Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, §§ 9.2 e 9.3). Di conseguenza, va disattesa l’ulteriore lettura che ammette l’estensione della mutatio libelli al risarcimento soltanto qualora la domanda di risarcimento sia già stata proposta insieme a quella di adempimento (G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, Art. 1453-1459, in Il Codice Civile. Comm., fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2007, 458 ss.; A. Gili, Rapporti tra il diritto di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione, ex art. 1453, 2° comma, c.c. e nuovo regime delle preclusioni nel processo civile di primo grado, in Giur. it., 1999, 28, 1867.).
La pressoché condivisibile ricostruzione delle tutele ex art. 1453 c.c. effettuata dalle Sezioni Unite in commento non appare, però, del tutto coerente. I giudici di legittimità affermano, infatti, che tra il risarcimento del danno e la risoluzione v’è sì complementarietà, nel senso che insieme contrastano il vulnus contrattuale verificatosi, ma che tra i due, diversamente dalle restituzioni, non esiste un nesso di consequenzialità logico-giuridica, giacché il risarcimento non presuppone la risoluzione (così Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, § 9.2). Di conseguenza, mentre le restituzioni sono influenzate dall’efficacia retroattiva della risoluzione, lo stesso non può affermarsi con riguardo al risarcimento, il che permette la soddisfazione dell’interesse della parte fedele a considerare il contratto, nonostante l’effetto retroattivo, fonte di un determinato assetto quantitativo (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, § 9.2). L’epilogo di tale ragionamento è l’adesione alla tesi prevalente in dottrina e in giurisprudenza secondo cui il quantum del danno da risoluzione va identificato nel c.d. interesse positivo, ossia nella differenza tra «la situazione scaturita dal fallimento della vicenda contrattuale ed il vantaggio che il contratto autorizzava a trarre» (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, § 9.3).
Si è tentato di spiegare altrove le ragioni che giustificano il rifiuto di tale tesi, sicché in questa sede ci si limita a segnalare alcune incoerenze della pronuncia in commento. In particolare, i giudici di legittimità affermano che
la risoluzione esplica effetti retroattivi, sicché innesca le restituzioni delle prestazioni eventualmente eseguite, ma consente di tenerne conto sul fronte del danno;
il risarcimento è complementare alla risoluzione, ma non la presuppone, sicché il danno da risoluzione non è consequenziale alla risoluzione e, quindi, non deve tener conto degli effetti della seconda.
In altri termini, le Sezioni Unite appaiono, da un lato, sostenere la complementarietà del risarcimento per giustificare la sua inclusione implicita nella domanda di risoluzione e, dall’altro lato, trattare il risarcimento come un mezzo di tutela astratto dal piano di tutele in cui s’inserisce per giustificarne l’identificazione con l’interesse positivo.
Di contro, va rammentato che il risarcimento del danno da risoluzione, in quanto ad essa complementare, mira alla compensazione del pregiudizio che residua dopo la risoluzione. Di conseguenza, occorre valutare la portata dell’effetto retroattivo innescato dalla risoluzione medesima, il quale trasforma il contratto in danno per la parte fedele. La retroattività della risoluzione implica, infatti, che nel sistema italiano, diversamente dal common law dove – com’è noto – la risoluzione non ha effetti retroattivi, occorre guardare al contratto risolto in termini retrospettivi come evento dannoso per la parte fedele. L’effetto ablativo del nesso di corrispettività provocato dalla risoluzione non permette, però, di prendere in considerazione la prestazione che era dedotta in contratto, giacché la parte fedele vi ha rinunciato, e tale rinuncia ha effetto retroattivo, tant’è che, se la stessa fosse stata in parte adempiuta, andrebbe restituita.
Il danno che residua coincide, dunque, con la lesione dell’interesse negativo. Sul punto occorre chiarire, però, che in questa sede l’interesse negativo non va inteso nell’accezione tradizionale di situazione soggettiva precontrattuale dal momento che i danni che il rimedio risarcitorio è chiamato a rimuovere in sede di risoluzione ledono interessi diversi da quelli che caratterizzano la fase precontrattuale. E la diversità risiede nella circostanza che tali interessi sorgono e assumono rilevanza nel corso del rapporto contrattuale e nell’ottica della sua esecuzione, sicché la violazione del contratto e l’effetto ablativo che ne discende con la risoluzione tramuta la vanificazione di tali interessi in danni, il cui contenuto non può dunque coincidere con quello dei pregiudizi precontrattuali.