In merito all’orientamento, di cui è espressione la pronuncia del Tribunale di Vercelli 12 febbraio 2015, il quale riconosce la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di proprietà, una riflessione in chiave critica può muoversi in due direzioni.
Innanzitutto, ci si può chiedere se tale diritto rientri nel novero degli interessi della persona costituzionalmente garantiti coperti dal crisma dell’inviolabilità. In secondo luogo, ci si può interrogare se le pretese risarcitorie dei danneggiati, diverse dal danno emergente e dal lucro cessante, possano essere davvero inquadrate, in una fattispecie come questa, nell’ambito delle conseguenze dannose della violazione del diritto dominicale.
I proprietari di un appartamento, sito in un condominio, lamentano di avere subito danni patrimoniali e non, in conseguenza di una serie di infiltrazioni d’acqua, le quali, oltre ad avere danneggiato gli infissi e gli arredi della loro camera da letto, hanno impedito il normale godimento di quella parte dell’abitazione.
Tralasciando qui la questione relativa all’accertamento della responsabilità – il giudice condanna in solido l’impresa cui erano stati commissionati i lavori di impermeabilizzazione del terrazzo, ritenendola inadempiente, e il condominio oltre che il proprietario del piano superiore – l’aspetto sicuramente più interessante, affrontato dalla pronuncia in commento, riguarda l’individuazione delle conseguenze dannose risarcibili.
Come si è anticipato, infatti, questa sentenza si inserisce in quella (sempre più corposa) corrente della giurisprudenza di merito che ammette la risarcibilità dei danni non patrimoniali conseguenti alla lesione del diritto di proprietà, previa la qualificazione di quest’ultimo diritto – nell’ottica del “filtro” imposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nelle celebri pronunce n. 26972, 26973 e 26975 del 2008 (le c.d. sentenze di San Martino, ex plurimis, in Giust. civ., I, p. 913, con nota di M. Rossetti) – come diritto “inviolabile” dell’uomo.
In particolare, le ipotesi in cui si registra questa tendenza sono riconducibili a due categorie.
Nella prima categoria, rientrano tutti quei casi – come quello di specie – in cui l’illecito abbia compromesso il normale godimento di un bene. Più precisamente, vengono normalmente in considerazione quelle fattispecie in cui tale bene rivesta una particolare importanza, costituendo la casa di abitazione del danneggiato (v., ad es., Trib. Firenze 21 gennaio 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 762). Relativamente, poi, all’eziologia dell’evento dannoso, si tratta specialmente di ipotesi di immissioni o, come nel nostro caso, di infiltrazioni d’acqua.
La seconda categoria, invece, s’interseca con la spinosa problematica della perdita dell’animale domestico d’affezione. In questo caso – come si approfondirà in seguito, v. infra par. 6 – la ricostruzione che fa leva sul danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di proprietà, di cui è titolare a tutti gli effetti il “padrone” del gatto o del cane, è una delle strade prospettate in dottrina per superare l’impasse della non risarcibilità del valore del rapporto tra l’uomo e il suo animale da compagnia (F.M. Scaramuzzino, Il risarcimento del danno non patrimoniale da morte o ferimento dell’animale d’affezione, in Resp. civ., 2012, p. 623 s.).
Con le sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (Cass. 11 novembre 2008, n. 26972, 26973 e 26975), come noto, la fisionomia del danno non patrimoniale ha conosciuto una significativa evoluzione nel nostro ordinamento (per una ricostruzione sistematica, cfr. P. Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, Milano, 2011).
Occorre tenere a mente che l’ottica con cui la Suprema Corte ha affrontato la questione è stata quella della necessità di restringere le maglie della risarcibilità del pregiudizio non economico, per mettere così fine ad una stagione della giurisprudenza di merito, che, dal canto suo, aveva enucleato tutta una serie di danni risarcibili al limite dell’estravagante (è frequente, nei contributi degli Autori che si sono occupati del tema, riportare alcuni esempi bizzarri segnalati dalla stessa Suprema Corte, quali il pregiudizio subito dalla sposa per la rottura del tacco della scarpa, lo sconforto del tifoso per non avere potuto guardare la partita di calcio a causa di un black out, ed altri simili).
Volendo sintetizzare le indicazioni concretamente elaborate dalla Cassazione in quell’occasione, si può dire che oggi la rilevanza – e quindi la risarcibilità – del danno non patrimoniale deve essere vagliata alla luce di uno schema piuttosto rigido, incentrato su una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.
Come noto, questa norma ammette il risarcimento del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge: il riferimento del legislatore storico – ispirato ad una visione essenzialmente paneconomica degli interessi tutelati dal diritto privato (come ricorda C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 2° ed., 2012, p. 189 ss.) – era, in buona sostanza, ai pregiudizi morali patiti dalla vittima in conseguenza di un reato, la cui risarcibilità trova tutt’oggi esplicito fondamento nell’art. 185 cod. pen. Tale ipotesi si configurava nel clima dell’epoca – orientato, come si è detto, a negare la tutela degli interessi non economici – come un’eccezione, la quale ben si giustificava a fronte della natura pubblica della norma penale e del rilievo sociale del bene che essa protegge.
Alla luce del quadro emergente dall’evoluzione giurisprudenziale, culminata proprio nelle citate sentenze gemelle, al di là del caso peculiare in cui l’illecito civile costituisca anche reato e senza tenere conto della progressiva introduzione di altre disposizioni nell’ordinamento, che espressamente prevedono la possibilità per il danneggiato di domandare il ristoro dei pregiudizi non economici (soddisfacendo così la condizione dell’art. 2059 cod. civ.), deve ritenersi che il danno non patrimoniale sia altresì risarcibile quando discenda da una lesione di un diritto costituzionalmente garantito della persona, che possa qualificarsi come inviolabile. Occorre, poi, che l’offesa arrecata al bene protetto sia grave e che il pregiudizio sofferto a cagione di tale offesa non sia futile.
Quest’ultima precisazione, peraltro, è un chiaro segnale della reale finalità avuta di mira dalle Sezioni Unite, a cui si è poc’anzi fatto cenno, di escludere definitivamente dall’area del risarcibile tutti quegli illeciti definiti come “bagatellari”. L’argomento dei giudici di legittimità si fonda qui sul principio costituzionale di solidarietà, il quale, in ultima istanza, impone un dovere di tolleranza del danneggiato nei confronti di eventi che, pur avendogli causato un disagio o un disguido, ed essendo imputabili ad un altro soggetto, non possono fondare una responsabilità di quest’ultimo, proprio in considerazione della particolare levità delle conseguenze arrecate. Per inciso, non deve sfuggire che il nostro sistema di responsabilità civile, tenuto conto della funzione compensativa e in certa misura satisfattoria delle norme sull’illecito (lato sensu inteso), non parametra il risarcimento dovuto alla condotta del danneggiante, ma alle conseguenze dannose che, concretamente, quella condotta ha arrecato al danneggiato; sicché non deve stupire che il nostro ordinamento, per il tramite dell’interpretazione del diritto vivente, escluda la risarcibilità di un illecito in ragione della particolare tenuità del pregiudizio che ne è scaturito. Tanto più che tale ricostruzione riguarda solo il danno non patrimoniale, mentre non può dubitarsi – per riprendere uno degli esempi ricordati dalle Sezioni Unite – che, nell’ipotesi in cui la scarpa danneggiata abbia un valore economico, la sposa abbia diritto al risarcimento di tale valore.
Il quadro complessivo, come si è tratteggiato qui per sommi capi, pur superando l’idea asistematica di un doppio binario per il risarcimento del danno a seconda della patrimonialità dell’interesse leso – l’uno fondato sull’art. 2043 cod. civ. e l’altro sull’art. 2059 cod. civ. –, rivela l’esistenza di un principio, per così dire, bifronte che ispira l’art. 2043 cod. civ., quale unico fondamento normativo: il principio di tipicità/atipicità.
In particolare, mentre il danno patrimoniale è risarcito per il solo fatto di una lesione giuridicamente rilevante (atipicità), il pregiudizio non patrimoniale richiede un’ingiustizia normativamente qualificata, proprio in forza dell’esplicita scelta legislativa condensata nell’art. 2059 cod. civ. (tipicità). Tale impostazione viene ribadita dalla Suprema Corte, la quale integra, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata della norma da ultimo citata, il rinvio «ai casi determinati dalla legge» con il catalogo dei diritti garantiti in Costituzione che rientrano nell’area della inviolabilità (su questa impostazione, cfr. F. Azzarri, Il sensibile diritto. Valori e interessi nella responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2012, p. 30 s.).
Sulla tipicità del danno non patrimoniale si innesta una prima, significativa ed articolata problematica.
Infatti, da un lato, le Sezioni Unite mostrano un atteggiamento di apertura rispetto a quei diritti inviolabili che rientrerebbero nel nostro ordinamento, per quanto non scritti, per il tramite della clausola generale di cui all’art. 2 Cost., trascurando che la portata del rinvio – riassuntivo o integrativo del catalogo contenuto nel testo costituzionale – di quest’ultima norma non è ancora ben inquadrato dai costituzionalisti (raccoglie le diverse letture di tale articolo M. Astone, Danni non patrimoniali. Art. 2059 c.c., in Commentario al Codice civile Schlesinger diretto da F.D. Busnelli, p. 123 s.). La conseguenza, come è intuibile, è quella di fare rientrare dalla finestra il rischio della discrezionalità “creativa” delle Corti di merito, seppure severamente procedimentalizzata sulla base dello schema che si è poc’anzi abbozzato: inviolabilità del diritto, gravità della lesione, non futilità del pregiudizio (sulla discrezionalità del giudice, in relazione, in particolare, al «filtro dei diritti inviolabili», v. P. Ziviz, La scivolosa soglia dei diritti inviolabili, in Resp. civ. e prev., 2011, p. 1301 ss.). Dall’altro lato e in direzione contraria, con una visione un po’ legeforista della tutela dei diritti fondamentali, viene chiusa la porta a qualsiasi integrazione del catalogo ad opera di fonti internazionali e, in particolare, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), sulla base di un argomento formale, tratto da una celebre giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, nella gerarchia delle fonti, ha assegnato a tale trattato internazionale un rango non parificato a quello della Costituzione repubblicana (su tale questione, si tornerà infra, par. 4).
Occorre, inoltre, segnalare un ulteriore punto che riguarda direttamente il nostro caso, poiché l’evento lesivo, secondo la ricostruzione del Tribunale di Vercelli, è da imputarsi in primo luogo all’inadempimento dell’impresa che aveva eseguito i lavori di impermeabilizzazione del terrazzo. Ci si riferisce alla questione relativa alla risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente ad un inadempimento (in tema, v. A. Zaccaria, Il risarcimento del danno non patrimoniale in sede contrattuale, in Resp. civ., 2009, p. 28). A tale riguardo, va ricordato che le Sezioni Unite hanno affrontato questo punto insieme ad un altro aspetto centrale nel dibattito in materia, ossia il cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Il cumulo è un istituto che opera a favore del danneggiato, permettendogli di scegliere quale azione esercitare – o anche di esercitarle entrambe, nei limiti dell’imperativo divieto della duplicazione dei risarcimenti – quando l’illecito integri, ad un tempo, sia un inadempimento sia la lesione di un interesse tutelato di per sé dall’ordinamento nella vita di relazione, a prescindere dalla (pre)esistenza di un rapporto obbligatorio. Come si può intuire, il vantaggio per il danneggiato consiste nel poter superare i limiti che, in un senso o nell’altro, il legislatore pone a seconda del titolo – contrattuale o extracontrattuale – dell’azione esercitata.
Secondo il ragionamento delle Sezioni Unite, poiché questo espediente è stato sostanzialmente adoperato per estendere la risarcibilità del danno non patrimoniale all’ipotesi di responsabilità contrattuale, esso deve ritenersi ormai superfluo: non vi sono ragioni, infatti, per non ammettere il risarcimento di tale pregiudizio anche nel caso in cui esso consegua ad un inadempimento, quando la violazione del rapporto obbligatorio determini pure la lesione di un diritto inviolabile della persona. Anzi, una distinzione tra i regimi non sarebbe proprio tollerabile alla luce del principio costituzionale di eguaglianza: che un diritto di tal genere sia compromesso da un fatto illecito o da un inadempimento non può avere rilievo, tanto a meno a scapito del danneggiato.
Ora, se è sicuramente positivo il superamento da parte delle Sezioni Unite dei dubbi in merito alla risarcibilità del danno non patrimoniale in sede contrattuale, non si può non osservare, seppure in una battuta, che la conclusione nel senso della inutilità del concorso di azioni è alquanto sbrigativa e, in definitiva, difficilmente condivisibile, posto che sussistono comunque numerose differenze tra i due tipi di responsabilità in questione (si pensi, ad esempio, al termine prescrizionale più lungo nella responsabilità da inadempimento da un lato e, dall’altro, alla mancata operatività della limitazione del danno risarcibile di cui all’art. 1225 cod. civ. nella responsabilità aquiliana: per una sintesi delle differenze, C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., p. 558 ss.), che ben possono giustificare la persistenza del cumulo.
Nella decisione in commento, il Tribunale di Vercelli condanna i convenuti a risarcire anche i danni non patrimoniali conseguenti alla lesione del diritto di proprietà, i quali vengono liquidati in via equitativa.
Nella parte motiva della sentenza, il giudice piemontese argomenta proprio sulla base dello schema tratteggiato dalle Sezioni Unite: viene individuato, cioè, un pregiudizio non futile legato ad una lesione grave – «eccedente la soglia minima di tollerabilità» – di un diritto costituzionalmente garantito, e si accerta che tale diritto può essere qualificato come “inviolabile”.
Nel nostro caso, poiché la tutela della proprietà trova una precisa collocazione nella Costituzione, in particolare all’art. 42, occorre capire – in buona sostanza – se la garanzia costituzionale del diritto dominicale sia assistita dal crisma dell’inviolabilità, poiché, come è noto, i due concetti non sono coincidenti e la prima non postula il secondo (cfr. C. Cost. 26 maggio 1971, n. 109).
Concentrando per il momento l’attenzione sulle fonti interne, si deve osservare che è molto dibattuto se la proprietà costituisca un diritto inviolabile dell’uomo secondo la nostra Legge fondamentale.
Occorre osservare, in via preliminare, che la dottrina costituzionalistica e la giurisprudenza hanno da tempo superato quella visione assai restrittiva, secondo cui l’inviolabilità andrebbe riconosciuta solo a quei diritti espressamente qualificati come tali dalle norme costituzionali (v., tra tutti, E. Rossi, sub art. 2, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti [a cura di] Commentario alla Costituzione, Milano, 2006, p. 46).
Anzi, alcuni dubitano che l’aggettivo “inviolabile”, adoperato espressamente dal Costituente per definire taluni diritti (cfr. ad esempio l’art. 14 Cost., secondo cui «il domicilio è inviolabile»), abbia il precipuo significato di inquadrarli nel rango dei valori massimamente tutelati nell’ordinamento, richiamando piuttosto l’idea di una difesa rispetto alle illegittime ingerenze degli strumenti investigativi, soprattutto penalistici (lo rileva A. Baldassarre, voce «Diritti inviolabili», in Enc. giur., XI, Torino, 1989, p. 21, cui si rinvia per ulteriori riferimenti).
Orbene, secondo l’orientamento prevalente, l’evoluzione della concezione del diritto di proprietà, dalla formula quasi “sacrale” espressa nello Statuto Albertino («Tutte le proprietà sono inviolabili»), all’accento della Costituzione repubblicana sulla finalizzazione sociale dell’istituto, sarebbe un chiaro segnale di un mutamento di prospettiva del Costituente. In sostanza, essendo la proprietà un diritto ancillare e periferico rispetto alla centralità dell’individuo, essa non richiederebbe quella protezione assoluta che normalmente si accorda ai diritti inviolabili (sono di questa opinione C.M. Bianca, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1999, p. 170 ss. e, in giurisprudenza, Corte Cost. 11 febbraio 1971, n. 22).
Tuttavia, è bene segnalare che sul tema non si registra un’unità di vedute.
Si può osservare, per esempio, con altra autorevole dottrina, che, nella formulazione dell’art. 42 Cost., si riscontrano i due concetti chiave dell’inviolabilità del diritto, così come cristallizzati nell’art. 2 Cost., ossia l’essere il diritto riconosciuto come proprium dell’essere umano, e non semplicemente attribuito da una norma positiva, e l’essere il medesimo garantito (P. Rescigno, voce «Proprietà (dir. priv.)» in Enc. dir., Milano, 1988, p. 270, salva poi la possibilità, cui accenna lo stesso Autore, di ritenere che tali qualificazioni costituiscano semplicemente una reminiscenza giusnaturalistica, un residuo – cioè – di un’epoca giuridicamente lontana).
In effetti, è proprio l’art. 2 Cost. la norma cardine per dare una risposta alla nostra domanda, qualora si rimanga, a livello esegetico, sul piano delle fonti interne. Questa norma, nell’avvertire l’interprete della presenza nell’ordinamento di taluni diritti che, per la loro natura per così dire intrinseca allo statuto della dignità umana, possono essere qualificati come inviolabili, svolge una duplice funzione.
Da un lato, come si è accennato, si ritiene che essa possa essere adoperata per integrare il catalogo dei diritti costituzionalmente garantiti, atteggiandosi come una sorta di clausola “aperta”, condizionando, però, la tutelabilità del diritto non scritto all’esito positivo della valutazione della sua inviolabilità. Tale interpretazione, fatta propria da un orientamento della Corte Costituzionale e incoraggiata dalla stessa Cassazione nelle Sezioni Unite di San Martino (v. supra par. 2), non è però condivisa da tutti: non manca, infatti, chi ritiene che l’art. 2 Cost. abbia una funzione meramente riassuntiva del tessuto costituzionale dei diritti (sulla questione v. M. Cartabia, E. Lamarque, I diritti dei cittadini, in V. Onida, M. Pedrazza Gorlero [a cura di], Compendio di diritto costituzionale, Milano, 2011, p. 92 s.: secondo le Autrici, dietro ad una visione rigida espressa diverse volte dal Giudice delle Leggi, si cela, in realtà, un atteggiamento incline a riconoscere nuovi diritti).
Dall’altro lato, tale norma funge da vaglio dei diritti contenuti nella Carta costituzionale, permettendo di discernere, attraverso un procedimento ermeneutico, quelli inviolabili dagli altri.
Per capire quali diritti siano inviolabili, naturalmente, occorre sia chiaro, al di là di ogni rigidità lessicale (non è univoco, ad esempio, se l’aggettivo “fondamentale” sia un sinonimo di “inviolabile”, oppure esprima una categoria ancora diversa di diritti), cosa si intenda con tale concetto, senza dimenticare lo scopo della nostra indagine, legata al descritto schema elaborato dalle Sezioni Unite.
Secondo una definizione autorevole, il concetto di inviolabilità riguarderebbe «i valori originari, assolutamente intangibili nel loro nucleo assiologico sia da parte di qualsiasi soggetto privato (incluso il titolare), sia da parte di qualsiasi potere costituito (pubblico o privato), compreso quello di revisione costituzionale» (A. Baldassarre, voce «Diritti inviolabili», cit. p. 29; sul tema, v. anche E. Navarretta, Il danno non patrimoniale e la responsabilità extracontrattuale, in E. Navarretta [a cura di], Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Milano, 2010, p. 22 ss.).
Orbene, secondo l’orientamento che qui si condivide, il carattere dell’inviolabilità, esprimendo un’idea di intangibilità e di massima tutela, non potrebbe che essere accordato unicamente a quel corredo dei diritti della persona, che attiene allo statuto dell’uomo in quanto tale e che è espressione, in altre parole, della sua dignità e libertà.
Partendo da questo punto, secondo alcuni, tale rango andrebbe garantito a quegli interessi che disegnano la sfera dell’essere dell’uomo, non del suo avere (F. Azzarri, La proprietà e la tutela aquiliana dei diritti fondamentali, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 773).
In prima approssimazione, si potrebbe tradurre nel linguaggio giuridico questo concetto negando che un diritto possa essere considerato come inviolabile, quando abbia natura o contenuto patrimoniale. La conseguenza necessaria di questo modo di ragionare è, ovviamente, l’esclusione da tale novero della proprietà, quale diritto patrimoniale per eccellenza.
Sennonché, con riguardo a questo punto, si possono effettuare alcune osservazioni.
Anzitutto, occorre osservare che nel novero dei diritti fondamentali, gli strumenti internazionali includono pure diritti tradizionalmente classificati come “economici” (sul punto, si tornerà nel par. seguente).
In secondo luogo, appare probabilmente troppo drastica l’esclusione in radice della possibilità per un diritto di essere qualificato come “inviolabile” per il solo fatto di avere un contenuto patrimoniale. Nel nostro ordinamento sono, invero, configurabili diversi esempi in senso contrario: si pensi, tra i vari possibili, al diritto alla retribuzione, previsto all’art. 36 Cost., il cui contenuto è sicuramente patrimoniale, ma riguardo al quale non si dubita che si tratti di un diritto fondamentale del lavoratore.
A ben vedere, allora, è centrale non sovrapporre gli aspetti del contenuto e della natura del diritto, poiché è certamente possibile che un diritto della personalità (anche inviolabile) abbia ad oggetto una prestazione economica (come ha osservato autorevole dottrina: C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma giuridica, i soggetti, Milano, 2° ed., 2002, p. 147 s.).
Altra cosa è chiedersi se possa essere considerato “inviolabile” un interesse di natura patrimoniale.
L’orientamento tradizionale nega senz’altro questa possibilità, ritenendo la non patrimonialità quale presupposto indefettibile di ogni diritto fondamentale (C.M. Bianca, Diritto civile, 1, cit., ibidem).
Si potrebbe però proporre su uno schema di ragionamento meno rigido, che faccia perno sul concetto chiave di strumentalità del diritto alla realizzazione della personalità umana, che si desume dall’art. 2 Cost.
L’interpretazione che si suggerisce, in definitiva, è quella di considerare l’espressione «diritti inviolabili della persona» come comprensiva di tutti quei diritti che sono strumentali alla realizzazione dell’uomo in quanto tale, a prescindere dalla loro natura e dal loro contenuto. Ovviamente, di regola, alla categoria dei diritti inviolabili potranno afferire i diritti della personalità, poiché è indubbiamente più facile riscontrare in essi un carattere di intrinseca coessenzialità allo svolgimento della personalità umana; nondimeno non si potrebbe escludere a priori che tale carattere sia presente anche in taluni diritti patrimoniali, quale, ad esempio, il diritto dominicale.
Per tirare le fila di questo discorso, se si segue l’orientamento tradizionale, si deve senz’altro concludere che il diritto di proprietà non possa essere considerato in alcun modo “inviolabile” per il solo fatto della sua natura patrimoniale.
Se, invece, si vuole far leva sull’opzione interpretativa che valorizza la valutazione della strumentalità del diritto, deve dirsi che la risposta in merito alla collocazione della proprietà nell’ambito dei «diritti inviolabili della persona» è più difficile da dare e che, in buona sostanza, finisce per variare a seconda della sensibilità, mutevole nel tempo, degli interpreti e della giurisprudenza. Sembra, ad ogni modo, difficile riscontrare quel legame di stretta funzionalità alla realizzazione della persona e della sua dignità, di cui si è detto, nel diritto di proprietà in sé e per sé considerato, anche se a diversa conclusione si potrebbe, però, giungere con riguardo ad alcuni aspetti a tale diritto (talora, ma non sempre necessariamente) correlati, quale il diritto di abitare in un alloggio decoroso e confortevole.
L’analisi non sarebbe certo completa se non si prendesse in considerazione anche il quadro delle fonti internazionali ed europee, in virtù di quello che normalmente si definisce “sistema multilivello” della tutela dei diritti fondamentali (come opportunamente sottolinea, con riguardo al tema che qui interessa, R. Rolli, La proprietà come diritto dell’uomo?, in Contr. e impresa, 2011, p. 1014).
Anzi, è proprio sulla base dell’apertura del nostro ordinamento alla dimensione internazionale che il giudice di Vercelli arriva a concludere che il diritto di proprietà rientra tra i diritti inviolabili e a risarcire, di conseguenza, i danni non patrimoniali derivati dalla sua lesione, dato che, per lo stesso Tribunale, «non v’è dubbio che la Costituzione repubblicana (a differenza dello statuto albertino) attribuisca al diritto di proprietà il rango non di diritto inviolabile».
In linea preliminare, si deve dare atto che non convince pienamente l’affermazione delle Sezioni Unite di San Martino (v. supra par. 2) secondo cui il catalogo dei diritti fondamentali, se può essere integrato alla luce della clausola aperta dell’art. 2 Cost., deve invece rimanere insensibile rispetto alle fonti internazionali e, in particolare, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (c.d. CEDU).
L’argomento a sostegno di questa chiusura, come si è accennato, fa leva sul rango di tale trattato nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento giuridico, alla luce della celebri pronunce della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 2007. In estrema sintesi, secondo questa giurisprudenza, le disposizioni della CEDU possono integrare il parametro costituzionale dell’art. 117, co. 1°, Cost. – il quale, nell’attuale formulazione, esprime il vincolo della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni agli obblighi internazionali e a quelli che provengono dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea – quali norme interposte, e costituire il punto di riferimento sostanziale nel giudizio di legittimità costituzionale di una norma ordinaria. Ciò posto, tuttavia, la Convenzione non acquisisce il medesimo valore della Costituzione ma rimane a quest’ultima sottordinata, pur costituendo anch’essa un vincolo alla legislazione ordinaria (si parla, in proposito, di fonte subcostituzionale: cfr. il passo di C. cost. n. 348/2007 riportato in M. Pedrazza Gorlero, Le fonti dell’ordinamento repubblicano, Milano, 2010, p. 36, cui si rinvia, più in generale, per un approfondimento della questione).
Come è stato bene osservato in dottrina, se la lettura data dalle Sezioni Unite all’inquadramento sistematico del rapporto tra le fonti elaborato dalla citata giurisprudenza costituzionale appare sostanzialmente corretta, non è di certo condivisibile una rigida chiusura – forse non troppo meditata – rispetto ad ogni integrazione che possa derivare dal diritto convenzionale, soprattutto perché ciò, concretamente, può avvenire anche per il tramite della clausola aperta dell’art. 2 Cost. (per un approfondimento, cfr. E. Lamarque, Il nuovo danno non patrimoniale sotto la lente del costituzionalista, in Danno e resp., 2009, p. 370). In altre parole, nulla impedisce che, in una prospettiva meramente interna, le norme della CEDU possano essere considerate come una sorta di fonte di cognizione di diritti, i quali potrebbero, perciò, rientrare nel tessuto costituzionale grazie alla funzione svolta dal predetto articolo.
La verità, però, è che l’affermazione delle Sezioni Unite appare alquanto anacronistica; occorre dire, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità successiva – come ad es. Cass. 27 aprile 2011, n. 9422, citata dallo stesso estensore della sentenza in commento – ha giustamente cercato di correggere il tiro, equiparando l’ingiustizia costituzionalmente qualificata a quella internazionalmente riconosciuta.
Diversi (ma altrettanto complessi) problemi si registrano sul piano delle fonti dell’Unione Europea (i quali, peraltro, spesso si intrecciano ai primi, considerando che la CEDU rientra tra tali fonti ex art. 6 TUE).
Poiché non è certamente questa la sede per richiamare ed approfondire la lunga e travagliata evoluzione del rapporto tra le fonti interne e quelle dell’Unione, ci limiteremo qui di seguito ad effettuare soltanto qualche cenno al riguardo, senza alcuna pretesa di esaustività.
Secondo la comune ricostruzione, prima ancora dell’art. 117 Cost., la norma costituzionale a cui l’interprete deve fare riferimento, per ricostruire il quadro complessivo, andrebbe individuata nell’art. 11 Cost. In virtù di tale disposizione, la Repubblica italiana, al fine di dare vita ad un ordinamento sovranazionale finalizzato ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni – nella specie, prima le Comunità, poi l’Unione Europea – ha ceduto una quota della propria sovranità alle Istituzioni di questa nuova organizzazione internazionale sui generis. Sicché non deve stupire che sia le fonti primarie (ossia i trattati) sia le fonti secondarie (direttive, regolamenti e decisioni) dell’Unione Europea abbiano un rango addirittura sovraordinato alla stessa Costituzione – nei confini elaborati dalla c.d. teoria dei controlimiti, la cui portata a detta di molti è più teorica che pratica. Ciò significa, per quanto qui interessa, che quando ci si riferisce ad un’ingiustizia costituzionalmente qualificata, non si può certo non tenere in considerazione la lesione di quei diritti contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE, la c.d. Carta di Nizza), la quale, come noto, con il Trattato di Lisbona, ha acquisito lo stesso valore giuridico dei trattati e, quindi, di diritto primario.
La prima conclusione a cui possiamo giungere, alla luce di questo ragionamento, è, pertanto, la necessità che l’interprete tenga in considerazione, al fine di qualificare il diritto di proprietà, tutti i piani dell’architettura “multilivello” della tutela dei diritti fondamentali.
A questo punto, occorre segnalare che in entrambe le Carte citate esiste una norma che espressamente tutela il diritto di proprietà, quale diritto fondamentale della persona: l’art. 1 Prot. 1 alla CEDU e l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (in relazione alla CEDU, v. R. Conti, Diritto di proprietà e CEDU. Itinerari giurisprudenziali europei. Viaggio fra carte e corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario, Roma, 2012, passim; in relazione alla CDFUE, v. M. Trimarchi, La proprietà: profili generali, in C. Castronovo, S. Mazzamuto [a cura di], Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, p. 9 ss. e Id, I beni e la proprietà, in A. Tizzano [a cura di], Il diritto privato dell’Unione Europea, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Milano, 2006, p. 180).
Ad ogni buon conto, come si è segnalato in dottrina, la portata delle norme richiamate nel loro nucleo essenziale, con le precisazioni che tra poco si faranno, non differisce in modo poi così significativo, se si eccettua la maggiore attualità della formulazione della fonte europea (C. Fratea, Sub art. 17 Carta dei diritti e delle libertà fondamentali, in F. Pocar, M.C. Baruffi [a cura di], Commentario breve ai trattati dell’Unione Europea, Padova, 2014, p. 1707).
La conseguenza tratta dal Tribunale di Vercelli, sulla scorta di un orientamento della giurisprudenza di merito e abbozzato anche da parte della dottrina (cfr. S. Filippi, Lesione del diritto di proprietà e danno non patrimoniale: per le S.U. questo matrimonio non s’ha da fare, in Resp. civ., 2009, passim; Trib. Firenze 21 gennaio 2011, cit.) è nel senso della necessità di una decisiva svolta: essendo il diritto di proprietà, alla luce delle fonti sovranazionali, un diritto inviolabile, il danno non patrimoniale che scaturisce dalla sua lesione deve essere risarcito.
Lasciando a margine il problema relativo al campo di applicazione dei suddetti strumenti e approfondendo gli aspetti relativi al reale contenuto della tutela offerta dagli strumenti medesimi, anzitutto, si può osservare che il carattere inviolabile del diritto di proprietà, secondo queste convenzioni, sarebbe sottolineato dal mutamento di prospettiva con cui è enucleato il contenuto di questo diritto.
Secondo alcuni studiosi, infatti, in ambito europeo si sarebbe registrato un ritorno alla concezione liberale ottocentesca del diritto di proprietà, inteso, cioè, come un insieme di poteri spettanti al titolare, senza alcun riferimento alla funzione sociale dell’istituto, la quale invece, come si è detto, è il tratto distintivo della formulazione del nostro art. 42 Cost.
La differente concezione è evidente, se solo si considera la diversa collocazione del diritto nelle Carte: mentre nella Costituzione repubblicana l’istituto è disciplinato nell’ambito dei “Rapporti economici”, nella CDFUE troviamo l’enunciazione della proprietà nel titolo dedicato alle “Libertà”.
Sul punto, come era prevedibile, è sorto un vivace dibattito tra chi ritiene sostanzialmente inconciliabili le diverse prospettive e chi, invece, pensa che la distanza tra le medesime non sia incolmabile (v. G. D’Amico, Le ragioni di un convegno, in G. D’Amico [a cura di], Proprietà e diritto europeo. Atti del convegno Reggio Calabria, 11 e 12 ottobre 2013, Napoli, 2013, p. 20 ss.; M. Jaeger, Il diritto di proprietà quale diritto fondamentale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Europa e dir. priv., 2011, p. 358 s.).
Se si può essere portati a concludere che, nell’ordinamento europeo e internazionale, il diritto di proprietà costituisca un diritto fondamentale della persona, non sembra, peraltro, altrettanto pacifico che la lesione di tale diritto possa, alla luce dello schema delle Sezioni Unite del 2008, determinare la risarcibilità del danno non patrimoniale.
Sul punto, infatti, possono quantomeno sollevarsi alcuni rilievi problematici, che appaiono meritevoli di riflessione.
Innanzitutto, un problema di fondo consiste nella diversa estensione del concetto di proprietà, il quale – si deve ricordare – nell’applicare gli strumenti internazionali, deve essere oggetto di interpretazione autonoma, con l’ausilio, ove disponibile (come nel nostro caso), del diritto vivente.
Ora, mentre il diritto di proprietà di cui all’art. 42 Cost. e 832 cod. civ. è il classico diritto reale pieno e perpetuo (ossia un fascio di poteri spettanti al titolare su un bene inteso come res corporalis), lo stesso ha assunto, nella giurisprudenza della Corte Edu e della CGUE, un significato decisamente più ampio.
In primo luogo, si è ritenuto che rientrino nell’ambito della tutela “proprietaria” anche i diritti reali di godimento minori, i quali, come noto, sono espressione solamente di una parte dei poteri che spettano al proprietario e, più nello specifico, di una frazione dei poteri di godimento. In alcune pronunce, poi, la Corte Edu ha esteso tale tutela anche ai diritti reali di garanzia.
In secondo luogo, è decisamente più ampio il concetto di “bene” nel panorama internazionale (si osservi, però, con M. Jaeger, Il diritto di proprietà, cit., p. 355 s., che la CGUE ha comunque un orientamento più restrittivo rispetto alla Corte Edu). Secondo queste corti, infatti, rientrano nella nozione di cosa, che può essere oggetto del diritto di proprietà, anche le res incorporales aventi contenuto patrimoniale (facendo così venire meno il dogma della realità, sulla cui essenzialità nel diritto dominicale insiste, tra gli altri, A. Gambaro, La Proprietà, in Trattato di diritto privato diretto da G. Iudica, P. Zatti, Milano, 1990, p. 38) e, persino – per la Corte Edu – i diritti di credito per una rassegna, v. C. Fratea, Sub art. 17 Carta dei diritti e delle libertà fondamentali, cit., p. 1708-1709).
Si può immaginare che, se estendessimo tout court ad ogni campo del nostro ordinamento un concetto di proprietà come diritto fondamentale così ampio, probabilmente, dal punto di vista che ci interessa, perderebbe ogni senso il filtro dell’inviolabilità del diritto, elaborato dalle Sezioni Unite del 2008, quale argine alle pretese risarcitorie del danno non patrimoniale.
In un’ottica simile, infatti, rischierebbe di essere risarcibile un pregiudizio non economico anche per il solo fatto della semplice violazione dell’interesse creditorio, nell’ipotesi di inadempimento di un’obbligazione (senza, cioè, che a tal fine sia necessario provare la compromissione di un bene ulteriore e primario, come invece si richiede: sul punto v. supra, par. 2), o per la lesione dei poteri di godimento che spettano al titolare di un diritto reale limitato (poiché, come si è visto, equiparato dalle Corti internazionali – quanto a tutela – alla proprietà).
Tale risultato sembra francamente inaccettabile, poiché di fatto supererebbe definitivamente il limite previsto dall’art. 2059 cod. civ., svuotando la norma di significato, e andrebbe contro lo spirito dell’intervento della Suprema Corte.
La prospettiva che sembra più corretta per inquadrare il problema, allora, è quella di una necessaria relativizzazione del concetto di diritto fondamentale, quale conseguenza di un «continuo ampliamento della categoria» ad ogni livello, il quale «ha inevitabilmente comportato un parziale annacquamento della stessa (…), il cui significato e la cui portata tendono a stemperarsi e a divenire più generici e indeterminati» (le parole qui riportate appartengono a M. Trimarchi, La proprietà nella Costituzione europea, in G. Iudica, G. Alpa [a cura di], Costituzione europea ed interpretazione della Costituzione italiana, Napoli, 2006, p. 277).
In altre parole, può quantomeno nascere qualche dubbio in merito alla questione se il diritto di proprietà, pur potendosi definire come un diritto fondamentale nell’ordinamento europeo, possa superare il vaglio della inviolabilità del diritto così come elaborato dalla Suprema Corte nel 2008, e determinare così la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla sua lesione.
Come osserva autorevole dottrina (A. Baldassarre, voce «Diritti inviolabili», cit., p. 23 ss.), allora, è probabilmente corretto, all’interno della categoria dei diritti fondamentali, distinguere diritti inviolabili in senso stretto, che, come si è anticipato, rappresentano gli strumenti necessari per la realizzazione della personalità umana e, pertanto, intersecano le radici stesse della democrazia – ponendosi quasi come una espressione assai peculiare del principio aut simul stabunt, aut simul cadent – e diritti inviolabili in senso ampio, che ricomprendono, invece, tutti quei diritti che, pur incidendo sul modello storico e concreto di democrazia, non ne sono una condicio sine qua non.
In ultima analisi, il filtro della Suprema Corte sembra rifarsi unicamente ai primi, tra i quali, come detto, possono farsi rientrare esclusivamente quei diritti coessenziali allo statuto della dignità umana.
Tra questi, in definitiva, non può rientrare il diritto di proprietà così come cristallizzato negli strumenti internazionali in esame: ne è un chiaro segnale la particolare estensione della tutela che promana da queste norme, sia in base al loro tenore letterale sia in base al diritto vivente – che nei sistemi in esame, si ricordi, è fonte del diritto.
Ulteriori conferme si possono trarre dall’analisi della giurisprudenza della Corte Edu.
Invero, alcuni, tra cui lo stesso giudice estensore della sentenza in commento, portano, a sostegno della tesi della risarcibilità del danno non patrimoniale scaturente dalla violazione del diritto dominicale, varie pronunce della stessa Corte, in cui lo Stato italiano è stato condannato anche al risarcimento del danno morale conseguente ad occupazioni o espropriazioni illegittime da parte di enti pubblici, le quali hanno, evidentemente, leso il diritto di proprietà dei ricorrenti (C.Edu, 11 dicembre 2003, Carbonara e Ventura c. Italia; C. Edu, 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera c. Italia).
Tuttavia, l’argomento si rivela meno consistente di quanto possa sembrare a prima vista, se solo si prendono in considerazione due rilievi, sollevati da attenta dottrina.
Anzitutto, si è segnalato che la base giuridica della condanna al risarcimento del pregiudizio morale non risiede nella medesima norma in cui è contenuta la tutela del diritto, ma nell’art. 41 CEDU, disposizione inserita tra le regole di funzionamento della Corte (sul punto, v. F. Azzarri, La proprietà, cit., p. 770 s. e E. Navarretta, Il danno non patrimoniale, cit., p. 30, la quale, peraltro, segnala la presenza di norme sostanziali nella stessa CEDU che, invece, prevedono espressamente il diritto alla riparazione risarcitoria). Tale disposizione conferisce questa peculiare facoltà al giudice di Strasburgo per l’ipotesi in cui la violazione del diritto non possa, per ragioni connesse all’ordinamento dello Stato convenuto, essere completamente rimossa con l’esecuzione in forma specifica del dispositivo della sentenza.
In secondo luogo, non è di secondaria importanza il rilievo secondo cui la Corte Edu, nella citata giurisprudenza, a ben vedere, insiste non tanto sulla lesione del diritto in sé, quanto sulla violazione del principio di legalità dell’azione amministrativa a danno dei privati. In questi casi, infatti, il rimprovero mosso dalla Corte all’Italia ha riguardato, nello specifico, la mancanza, nel nostro ordinamento, di un regime (normativo, giurisprudenziale e di prassi amministrativa) che conferisca una prevedibilità minima ai provvedimenti di espropriazione.
Che l’attenzione della Corte Edu sia incentrata sul profilo della legalità è intuibile anche dalla lettura attenta del motivo per cui essa ha condannato al risarcimento del pregiudizio non patrimoniale: il danno morale da ristorare, infatti, scaturisce non dalla lesione del diritto di proprietà in sé, ma «da un senso di impotenza e di frustrazione di fronte allo spossessamento illegale dei propri beni» (cfr., inter alia, C. Edu, 28 giugno 2011, De Caterina e altri c. Italia).
In questo quadro, allora, l’argomento portato dal Tribunale di Vercelli a sostegno della sua tesi, fondato sull’art. 42 bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, non sembra meritevole di pregio.
In base alla disposizione di cui al primo comma di tale articolo, nel caso di occupazione acquisitiva da parte della P.A. di beni di un privato, il proprietario ha diritto ad un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale sia non patrimoniale patito.
Si può agevolmente rilevare, tuttavia, che il riconoscimento di un ristoro in un caso del genere, in cui, in buona sostanza, il cittadino subisce un esproprio senza il previo, canonico procedimento amministrativo, non postula certo che il legislatore italiano abbia voluto qualificare il diritto dominicale (effettivamente leso) quale diritto inviolabile dell’uomo in senso stretto.
Ciò, anzitutto perché, ancora una volta, il bene in gioco non è tanto la proprietà in sé quanto, di nuovo, il principio di legalità dell’azione amministrativa, il quale, non a torto, può considerarsi come inviolabile, intersecando le radici più profonde della democrazia (il vincolo legislativo all’esercizio del potere amministrativo, infatti, è senza dubbio un presupposto essenziale dello stato di diritto).
Se ne ricava, quindi, che il risarcimento del pregiudizio non economico può ricollegarsi alla lesione di questo interesse fondamentale più che alla semplice compromissione del diritto dominicale.
Inoltre, anche volendo concedere che il legislatore abbia espressamente previso che, in quest’ipotesi, sia risarcibile il danno non patrimoniale quale conseguenza della lesione della proprietà, si può ritenere che la norma sia il frutto di una precisa opzione di politica legislativa, che passa attraverso la specifica integrazione della riserva di legge contenuta nell’art. 2059 cod. civ. (alla luce del quale, come si è visto, il legislatore si arroga la prerogativa di individuare le ipotesi in cui il danneggiato può domandare il ristoro – nella forma del risarcimento o dell’indennizzo – anche del pregiudizio non economico).
Che poi questa scelta, nel caso di specie, possa essere discutibile alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, poiché considera solo il caso del soggetto leso da un ente pubblico, non pare, per ciò solo, un argomento dirimente per sostenere la conseguente necessità di estendere la risarcibilità del danno non patrimoniale a tutte le ipotesi di lesione del diritto di proprietà.
Per trarre le fila del discorso che si è fin qui condotto, si deve dire che è quantomeno dubitabile che la proprietà costituisca un diritto inviolabile in senso stretto e che, dalla sua lesione, consegua la risarcibilità del danno non patrimoniale.
Ciò, però, non significa che un simile pregiudizio non possa essere ristorato in un caso come quello posto al vaglio del Tribunale di Vercelli.
Il punto chiave, tuttavia, consiste nella corretta analisi e ricostruzione della fattispecie di illecito.
A ben vedere, la mancata possibilità di godere (di parte) dell’appartamento in cui si vive, a causa di continue infiltrazioni d’acqua, arreca una sofferenza e un disagio che non dipendono dalla lesione del (solo) diritto di proprietà. Non deve dubitarsi, infatti, che tale pregiudizio possa essere lamentato, per esempio, anche dal conduttore, che pure è titolare di un mero diritto personale di godimento.
Ne deriva, ad un’analisi più approfondita, che in queste ipotesi, oltre che sul diritto in base al quale il soggetto dispone del bene (reale pieno, reale limitato, personale di godimento), l’illecito (sia esso contrattuale o extracontrattuale) incide negativamente anche su un diverso interesse della persona. Nella fattispecie che ci riguarda, in particolare, oltre al diritto di proprietà, viene leso pure il diritto di abitazione: siamo di fronte, in definitiva, ad un illecito c.d. plurioffensivo.
Occorre osservare che la giurisprudenza di merito (v. Trib. Genova, 7 ottobre 2010, in Resp. civ., 2012, p. 284), in un caso del tutto simile, aveva già tentato di ancorare il risarcimento del danno non patrimoniale alla lesione di questo diritto, ma l’iter seguito dal giudice in quell’occasione era censurabile sotto vari aspetti (ben sottolineati nella nota di commento di S. Scola, Il danno non patrimoniale tra lesione del diritto di proprietà e diritto all’abitazione, in Resp. civ., 2012, p. 289; v. anche, per una ricostruzione simile a quella del tribunale ligure, più di recente, Trib. Trieste 9 dicembre 2013, in questa Rivista).
In particolare, il riferimento del giudice genovese all’inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14 Cost., allo scopo di rintracciare un appiglio costituzionale alla tesi del carattere strettamente funzionale alla realizzazione della persona umana del diritto in questione, appare quantomeno discutibile. In primo luogo perché, come si è sopra accennato, vi è più di un motivo per dubitare di quale sia il reale significato dell’aggettivo inviolabile testualmente inserito dal Costituente nella formulazione dell’art. 14 Cost., sembrando lo stesso articolo richiamare, più che altro, l’idea di un limite difensivo all’ingerenza degli strumenti investigativi. Più in generale, poi, occorre osservare che l’appartenenza del diritto di abitazione al novero dei diritti inviolabili in senso stretto è già da tempo riconosciuta dalla Corte costituzionale, in forza della clausola generale di cui all’art. 2 Cost. (v., tra le altre, C. Cost. 7 aprile 1988, n. 404, in Giur. it., 1988, I, 1, p. 1627; cfr., sul punto, pure S. Filippi, Il danno non patrimoniale derivante dal pregiudizio al godimento della casa di abitazione, in Resp. civ., p. 451, cui si rinvia per ulteriori riferimenti giurisprudenziali). Si tratta anzi, per inciso, di uno dei felici esempi di come, per il tramite della norma poc’anzi citata, possano rientrare nell’alveo dell’inviolabilità pure diritti riconosciuti come tali nella dimensione sovranazionale, superando quel limite (probabilmente troppo rigido, come si è detto sopra) imposto dalle Sezioni Unite nel 2008 all’integrazione del catalogo dei diritti costituzionalmente garantiti per mezzo delle fonti internazionali, quali la CEDU (per altri riferimenti alla recente giurisprudenza di merito, in tema di inviolabilità del diritto di abitazione e conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale, v. R. Rolli, Diritto di abitazione e risarcimento del danno non patrimoniale, in Danno e resp., 2014, p. 526 ss., cui si rinvia per un maggiore approfondimento sul punto).
In conclusione, bene ha fatto il Tribunale di Vercelli a condannare i convenuti al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti all’illecito, ma tali danni, a ben vedere, non conseguono alla compromissione dei poteri – nella specie di godimento – inerenti al diritto di proprietà, bensì alla lesione di un autonomo diritto, ossia il diritto all’abitazione, la cui titolarità – va sottolineato nuovamente – non coincide con quella del diritto dominicale.
Se si analizzano le altre fattispecie in cui normalmente viene in discussione la risarcibilità del danno non patrimoniale e si lega quest’ultimo alla lesione del diritto di proprietà, è possibile osservare che, anche in questi casi, molto frequentemente il problema può essere risolto grazie ad una ricostruzione della vicenda che ponderi attentamente tutti gli interessi lesi dal fatto imputabile: in questo senso, la possibile plurioffensività dell’illecito diviene, ancora una volta, la chiave di lettura preferibile.
Una prima tipologia di casi riguarda le immissioni. Come noto, l’art. 844 cod. civ. riconosce, in capo al proprietario, il diritto di chiedere la cessazione delle immissioni provenienti dal fondo vicino che superino la soglia della normale tollerabilità (salva la maggiore tolleranza eventualmente imposta dal legislatore, nell’ipotesi in cui esse provengano da un’attività industriale; sul rimedio, per una ricostruzione attenta anche al profilo del contemperamento degli interessi in gioco, v. C.M. Bianca, Diritto civile, 6, cit., p. 229 ss.).
Al di là dell’azione reale finalizzata ad inibire il fenomeno disturbante, l’ordinamento accorda al proprietario, leso nel godimento del suo diritto, pure il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
Lasciando da parte i pregiudizi di carattere economico, nel caso in cui il danneggiato lamenti che le sostanze immesse abbiano cagionato un danno alla sua integrità psico-fisica, nulla quaestio in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale, poiché è stata lesa la salute, quale bene costituzionale primario e diritto inviolabile della persona.
Qualora, invece, le immissioni non abbiano determinato una malattia medicalmente accertabile, rimane aperta la possibilità, per il danneggiato, di dimostrare che l’illecito ha comunque causato la lesione di un diverso diritto con il crisma dell’inviolabilità: ancora una volta, sovente, potrà venire in rilievo il diritto di abitazione nei termini sopra definiti (v. anche Cass. 19 dicembre 2014, n. 26899, in questa Rivista 24 gennaio 2015, la quale ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale in considerazione della significativa incidenza negativa dei rumori sulla qualità della vita del danneggiato).
Al di fuori di queste ipotesi, in sostanza, qualora non si individui nella fattispecie un interesse costituzionalmente garantito e inviolabile, autonomamente leso dall’illecito, non sarà risarcibile un danno non patrimoniale conseguente alle immissioni, conformemente allo schema delle Sezioni Unite (a meno di non voler proporre una significativa variazione o aggiustamento al medesimo schema: sul punto, v. P. Ziviz, Le immissioni intollerabili al vaglio dei principi delle Sezioni Unite, in Resp. civ. e prev., 2012, p. 115, la quale, nell’ottica di non restringere eccessivamente la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale in questi casi, propone una «lettura alternativa» che prenda «in considerazione la rilevanza costituzionale [non già del diritto leso, bensì] del danno».)
Un’altra importante tipologia di casi riguarda le fattispecie di ferimento o uccisione dell’animale d’affezione. La premessa da cui partire è che l’orientamento dominante, in dottrina e giurisprudenza, nega senz’altro la risarcibilità del danno non patrimoniale in quest’ipotesi, sulla scorta, tra l’altro, di un’esplicita contrarietà in proposito delle Sezioni Unite di San Martino (cfr. G. Ponzanelli, Nessun risarcimento per la perdita dell’animale d’affezione: la conferma del giudice di Catanzaro, in Danno e resp., 2012, p. 190, in commento a Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011).
Sul tema, tuttavia, non mancano voci favorevoli, sulla base, per il vero, di ricostruzioni alquanto diversificate (per un quadro efficace, v. F.M. Scaramuzzino, Il risarcimento del danno non patrimoniale, cit., p. 623 ss.).
Ora, ai nostri fini, occorre osservare che una delle strade prospettate per garantire al padrone un ristoro per la perdita del lato affettivo del rapporto con il proprio animale domestico fa leva proprio sulla risarcibilità del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà.
Oltre a tutte le perplessità, crescenti nella società del nostro tempo, nel ricondurre de plano il gatto e il cane di casa alle res su cui l’uomo esercita un mero diritto dominicale (in riguardo, v. G.A. Parini, Morte dell’animale d’affezione e tutela risarcitoria: è ancora scontro tra diritto e sentimento?, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, p. 603 ss.), la soluzione non sembra convincente per i seguenti motivi.
Anzitutto si è osservato che, se si ritenesse risarcibile l’affetto del proprietario nei confronti dei propri animali, si aprirebbe la strada ad una generalizzazione di questa voce di danno, la quale rischierebbe di divenire automaticamente riferibile a tutte le altre res nel patrimonio del danneggiato, in evidente frizione con la finalità del nuovo schema del danno non patrimoniale, volto, come si è detto, a restringere le maglie della risarcibilità di quest’ultimo (cfr. G. Ponzanelli, Danno da perdita dell’animale d’affezione: un no campano, in Danno e resp., 2011, p. 665).
Inoltre – e questo sembra il punto chiave –, quando il padrone chieda il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla perdita del proprio cane o gatto, egli, a ben vedere, non lamenta certo la violazione del proprio diritto di proprietà, quanto, piuttosto, la lesione di un ulteriore e diverso interesse, il quale consiste, in breve, nel beneficio generato dal rapporto con l’animale rispetto alla realizzazione della propria personalità umana (per questa via, si comprende, tra le altre cose, il motivo per cui anche i sostenitori dell’orientamento più rigido ammettono la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale subito dal non vedente che perda il proprio cane-guida).
In buona sostanza, si può concludere che la giusta prospettiva per valutare se sia risarcibile il danno non patrimoniale conseguente al ferimento o alla perdita dell’animale d’affezione è, ancora una volta, quella della plurioffensività dell’illecito. Pur non essendo questa la sede per approfondire la questione (sul punto si rinvia a G.A. Parini, Morte dell’animale d’affezione, cit., p. 608), può sinteticamente rilevarsi che, se si ritiene che l’interesse di natura personale che lega l’uomo al proprio animale sia sussumibile in un diritto costituzionalmente garantito e inviolabile – per il tramite, naturalmente, dell’art. 2 Cost., stante l’assenza di un’apposita disposizione nel tessuto costituzionale –, allora si potrà concludere nel senso di ammettere la risarcibilità del danno non patrimoniale, mentre diversamente la risposta dovrà essere negativa, senza poter far ricorso all’escamotage che fa leva sulla lesione del diritto di proprietà.
L’accento che si è voluto mettere sulla possibile (e decisamente frequente) plurioffensività dell’illecito può suscitare alcune riflessioni (ulteriori) sulle già ampiamente studiate categorie dogmatiche del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, a proposito delle quali il pensiero degli interpreti sembra ormai consolidato.
A tal proposito, sembra certamente condivisibile il punto di partenza per cui la patrimonialità del pregiudizio è una valutazione che riguarda le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito e non l’interesse leso, nonostante una certa ambiguità in dottrina e nelle stesse pronunce gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (sul punto, cfr. l’analisi di P. Ziviz, Il danno non patrimoniale, cit., p. 225 ss.; v. pure C. Salvi, La responsabilità civile, in Trattato di diritto privato diretto da G. Iudica, P. Zatti, Milano, 2005, p. 64 ss.).
È indubitabile, infatti, che dalla lesione di un interesse non patrimoniale possa discendere tanto un pregiudizio non patrimoniale quanto un pregiudizio patrimoniale (nei termini di danno emergente o di lucro cessante): la lesione del diritto alla salute, infatti, può sicuramente determinare, tra le altre cose, la necessità di affrontare spese mediche o l’impedimento di recarsi al lavoro e, quindi, di produrre reddito.
Tuttavia, dall’altro lato, l’impressione che si ha, se si condivide la chiave di lettura della plurioffensività dell’illecito, è che, di norma, il danno non patrimoniale difficilmente può risultare quale conseguenza della lesione di un interesse prettamente economico, mentre più sovente esso è il frutto della lesione di un interesse della persona ulteriore, parimenti violato dall’illecito.
Per questa via, in sostanza, si conferma una significativa asimmetria tra le due diverse tipologie di conseguenze dannose: mentre, infatti, il danno patrimoniale può considerarsi quale derivazione normale – e quindi automaticamente risarcibile – della lesione di qualsiasi interesse, economico o della personalità, il danno non patrimoniale, perché possa venire a rilievo, richiede, alternativamente che sia preso in espressa considerazione dal legislatore nella determinazione del risarcimento da violazione di uno specifico interesse (anche economico), oppure, coma accade nella maggior parte dei casi, che discenda dalla lesione di un interesse della persona inviolabile.
Dall’opposta prospettiva, l’automatica risarcibilità della conseguenza patrimoniale anche nelle ipotesi di lesione di un interesse non patrimoniale (inviolabile), al di là della generale formulazione dell’art. 1223 cod. civ., può giustificarsi alla luce di una duplice considerazione.
Anzitutto, in un caso simile, sarebbe sicuramente vano il tentativo di individuare un interesse di natura economica parimenti leso dall’illecito (nell’ottica della possibile plurioffensività del medesimo), a meno di voler riesumare la contestata categoria dell’interesse “all’integrità patrimoniale” (per una critica su tale categoria, v. C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., p. 645 s.).
In secondo luogo, non sembra azzardato sostenere che tale automatismo possa giustificarsi alla luce della particolare gravità sottesa alla violazione di un diritto della personalità (il che, a sua volta, da un lato, spiega l’importanza di un “filtro” all’individuazione di quegli interessi dalla cui lesione scaturisce una risposta “sanzionatoria” e, dall’altro lato, conferma il rovesciamento interpretativo della scala dei valori tutelati dal diritto privato, ponendo la persona al vertice).
Possiamo ora tradurre in indicazioni più concrete il nostro ragionamento, osservando che di fronte alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla violazione di un diritto la cui natura, invece, è eminentemente patrimoniale, l’interprete è chiamato a verificare, alla luce di una analisi approfondita della fattispecie, quale sia lo specifico valore leso, da cui origina la conseguenza dannosa. Si deve appurare, cioè, se il pregiudizio non economico trovi effettivamente origine nell’offesa dell’interesse patrimoniale o, piuttosto, come ben più spesso accade, nella compromissione di un interesse diverso, di natura personale.
Il primo impatto pratico del corretto inquadramento della fattispecie è che il filtro imposto dalle Sezioni Unite dell’inviolabilità del diritto deve operare con riferimento a questo specifico interesse ulteriore.
Con specifico riguardo al tema della nostra indagine, in tutte le ipotesi in cui ci si è chiesti se fosse risarcibile il danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto di proprietà, si è visto che il fine reale del danneggiato era quello di vedere ristorati pregiudizi derivati da lesioni diverse, quali quella del diritto di abitazione (di cui è titolare anche chi ha un semplice diritto personale di godimento), il diritto alla salute o il rapporto con l’animale d’affezione (sulla cui copertura ex art. 2 Cost., come si è visto, ancora si discute).
Questo non significa – si badi – che, così ragionando, si finisca per recuperare quella concezione, che pure in passato aveva avuto una certa fortuna in dottrina, che distingueva la patrimonialità del danno a seconda della natura dell’interesse leso (per la quale, v. A. De Cupis, Fatti illeciti, in A. Scialoja, G. Branca [a cura di], Commentario del codice civile, Bologna, Roma, 1971, p. 148).
Non si dubita, infatti, che dalla violazione del diritto di proprietà, per rimanere nei confini della nostra indagine, possano scaturire pure conseguenze negative non patrimoniali, quali la sofferenza e il patema d’animo (si pensi, ad esempio, alla contrizione che può derivare dalla distruzione di un cimelio di famiglia): nondimeno, a ben vedere, queste conseguenze sono rilevanti e quindi risarcibili nella misura in cui la legge lo preveda.
Se la violazione integra una fattispecie di reato, infatti, nulla quaestio; ciò, per il vero, a prescindere dalla natura personale o patrimoniale del bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice: la risarcibilità integrale di tutte le conseguenze si giustifica – per lo meno nelle originarie intenzioni del legislatore – in ragione del particolare disvalore e della maggiore lesività che contraddistingue l’illecito penale rispetto a quello civile (T. Padovani, sub art. 185, in M. Romano, G. Grasso, T. Padovani [a cura di], Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2011, p. 357).
Non si dimentica nemmeno che, in alcuni casi, è lo stesso legislatore ad aver espressamente previsto la risarcibilità dei danni non patrimoniali conseguenti alla lesione di interessi spiccatamente patrimoniali, quali i diritti di proprietà intellettuale e d’autore (cfr., ad es., in tema di diritto d’autore, A.M. Porporato, Sub art. 158 l.a., in L.C. Ubertazzi [a cura di], Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2012, p. 1870).
Non è questo il luogo né per approfondire quale sia la concreta funzione del risarcimento del pregiudizio non patrimoniale in queste specifiche ipotesi, né per indagare se il legislatore abbia inteso dare “copertura” agli interessi patrimoniali in sé (dalla cui lesione deriverebbe il danno non economico risarcibile) o, piuttosto, ad interessi diversi che vengono toccati dallo stesso fatto che lede i primi.
Riducendo tutte queste perplessità all’economia del nostro discorso e tornando alla questione che ci interessa, la conclusione cui si può giungere è che non sembra portare granché lontano il tentativo di qualificare il diritto di proprietà come diritto inviolabile, al fine precipuo di vederne risarciti i danni non patrimoniali conseguenti.
Si deve rimarcare, piuttosto, l’importanza della corretta qualificazione della fattispecie, anche al fine di evitare inammissibili duplicazioni o sovrapposizioni risarcitorie, poiché, molto spesso, dietro ad un’apparente linearità nella ricostruzione della vicenda si cela l’imprecisione logica di considerare conseguenze non patrimoniali della violazione di interessi patrimoniali la lesione di veri e propri interessi autonomi, anch’essi violati dall’unico fatto dannoso.
Questa precisazione, per il vero, non sembra una semplice sfumatura.
Al termine della nostra indagine, per tirare le somme, si può dire che il crescente orientamento della giurisprudenza di merito che ammette la risarcibilità del danno non economico conseguente alla violazione del diritto di proprietà non può essere condiviso, poiché, anzitutto, il diritto dominicale non soddisfa il requisito dell’inviolabilità, come sopra precisato.
Ne deriva che il patema d’animo conseguente, salva l’ipotesi del reato, deve ritenersi irrisarcibile.
Nondimeno, il danno non patrimoniale potrà comunque essere ristorato, in ipotesi come quella oggetto dell’attenzione del Tribunale di Vercelli, a patto che venga inquadrato come conseguenza della lesione di un diverso interesse della persona, sussumibile in un diritto costituzionalmente garantito come inviolabile, quale, nel caso al vaglio del giudice piemontese, il diritto di abitazione.
Questa lettura, che sembra essere quella dogmaticamente più corretta, presenta, inoltre, il notevole vantaggio di coniugare la premura di chi teme un eccessivo ampliamento del danno non patrimoniale risarcibile, col rischio di mettere a repentaglio la tenuta dello schema elaborato dalle Sezioni Unite nel 2008, e le ragioni di chi osserva che, in vicende come quella analizzata, il danneggiato può subire pregiudizi diversi da quelli meramente economici, che vanno al di là della semplice sofferenza eventualmente patita.