Nella sentenza qui commentata (Cass., 21 dicembre 2015, n. 25606), la S.C. affronta il tema riguardante la validità del contratto estimatorio privo di termine finale e di stima delle merci consegnate all’affidatario. Nel caso di specie il commerciante Tizio ha consegnato al gioielliere Caio una certa quantità di preziosi destinati alla vendita al consumatore finale. Decorso un certo periodo, Tizio notifica a Caio il decreto monitorio avente per l’oggetto il pagamento dell’equivalente in danaro, posto che questi non ha né corrisposto il prezzo, né restituito i beni.
Il Tribunale accolse l’opposizione proposta dall’intimato, in quanto non fu fissato dalle parti il termine per la (eventuale) restituzione. La magistratura d’appello riformò tale decisione con un provvedimento che è stato confermato dalla giurisdizione di legittimità. Per completare il quadro si consideri con attenzione che a parere della Corte di merito, il prezzo può essere determinato unilateralmente dal tradens, di modo che l’elemento originariamente mancante sarebbe integrabile successivamente ex uno latere.
Nel ricorso di legittimità il gioielliere lamenta l’errore in cui cadde il secondo giudice, là dove argomentò che il contratto estimatorio fosse valido ancorché privo: a) del termine finale per la restituzione o il pagamento del prezzo; b) della determinazione del valore dei beni dedotti nel rapporto obbligatorio. Queste censure sono state rigettate dalla sentenza della S.C., che ha così confermato il dictum impugnato.
Prima di entrare in medias res, ricordiamo che l’estimatorio permette al rivenditore (grossista o dettagliante), specie nei settori di mercato caratterizzati dalla mobilità elevata della domanda, d’affrancarsi dal rischio economico dell’invenduto, con l’obbligo di pagare il prezzo delle cose mobili (non deperibili) ricevute una volta smerciate, ferma restando la facoltà di restituirle alla scadenza pattuita nel caso opposto; dall’altro offre la facoltà al consegnante (tradens) di avvalersi di distributori autonomi in maniera da ridurre le spese altrimenti necessarie per organizzare una rete commerciale sottoposta al proprio controllo diretto.
Dall’abbozzato quadro illustrativo è agevole afferrare che il contratto estimatorio sia naturalmente destinato a operare nei rapporti d’impresa (qual è quello affrontato nella vicenda in esame), sebbene non possa astrattamente escludersi che una o ambedue le parti siano estranee alla categoria dell’imprenditore.
La nota distintiva del vincolo si esprime in ciò, che il consegnatario acquista con la dazione della merce – di lì l’attributo della realità qualificante il tipo normativo – la legittimazione a disporne, legittimazione affrancata dalla titolarità del diritto di proprietà che permane medio tempore nella sfera del tradens. Parte della letteratura (G. BISCONTINI, Del contratto estimatorio, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Artt. 1556-1558, Milano, 2013, 14 e 185 ss.) ritiene anche che l’accipiente assuma ex fide bona l’obbligo di promuovere la vendita delle merci ricevute. Si tratta di un obbligo che anche a noi pare connaturato alla fattispecie in esame, indipendentemente da qualsiasi pattuizione ad hoc. Come osserveremo tra poco, questa ammissione non consente tuttavia di scorgere in capo all’affidatario l’impegno ad agire nell’interesse del tradens; semmai l’impegno che ci sta occupando rileva sotto il profilo della condotta operosa preordinata a non vanificare la causa concreta del contratto e l’interesse empirico che la innerva.
Ci troviamo al cospetto di un contratto implicante lo smembramento del diritto assoluto per eccellenza: da un lato il proprietario (tradens), a séguito della consegna delle merci alla controparte, smarrisce ipso iure il diritto di disporre delle cose oggetto di stima come se tale diritto si distaccasse dalla nozione di dominium tramandataci dalla tradizione romanistica (art. 1558, 2° co., c.c.), dall’altro il consegnatario acquista su di esse il ius disponendi pur essendo sfornito del ius in re.
Né si può affermare che l’estimatorio presupponga l’attribuzione all’accipiens dell’incarico di alienare in nome proprio e per conto del consegnante conformemente allo schema tipico del mandato a vendere. Per confutare questa congettura sia sufficiente osservare – come anticipammo – che la legittimazione a disporre, assurgente a tratto destinato a identificare la fattispecie negoziale in discussione, non fa nascere un’obbligazione a gestire gli interessi patrimoniali del dominus. Insomma, il dovere di cooperare ex fide bona alla circolazione della ricchezza oggetto di stima non significa che in capo all’accipiente gravi la spada di Damocle della promessa gestoria. Siamo dunque al di fuori del rapporto gestorio. Prova ne sia che l’affidatario non deve restituire l’intero importo tratto dalla vendita ma solo il prezzo stimato (sul tema ritorneremo oltre).
In deroga al principio res perit domino, il consegnatario assume in forza della traditio effettiva – essendo a questo scopo insufficiente, come generalmente s’insegna, la consegna al vettore secondo il modello di cui all’art. 1510, 2° co., c.c. – il rischio derivante dalla perdita accidentale delle merci o dal loro danneggiamento fortuito (art. 1557 c.c.). Il fondamento della precitata deroga è dato dalla circostanza che l’accipiens non solo è legittimato a vendere le cose, ma esercita altresì su di esse il potere di controllo uti dominus. È appena il caso di osservare che un regime analogo affiora dallo statuto sulla vendita con riserva di proprietà (art. 1523 c.c.).
La separazione della legittimazione a disporre dal diritto reale serve a spiegare la regola espressa nell’art. 1558 c.c., secondo cui i creditori del consegnatario non possono sottoporre a pignoramento o a sequestro le cose oggetto di stima finché non sia stato pagato il prezzo, e con esso si sia perfezionato l’effetto traslativo fra consegnante e consegnatario.
Il trasferimento della proprietà si perfeziona infatti quando il consegnatario vende le cose al terzo, oppure nel momento in cui esse sono state acquistate dallo stesso consegnatario. Quest’ultimo può infatti reputare conveniente unire il dominio al preesistente ius disponendi. Fermo restando che in entrambe le varianti ora cennate egli è tenuto a pagare l’aestimatio al suo dante causa.
L’art. 1556 c.c. chiarisce che l’obbligazione principale dell’accipiens consiste nel pagamento del prezzo delle res tradite. Egli gode tuttavia della facoltà positivamente sancita di estinguere il contratto – quasi si trattasse di un atto di recesso – restituendo le cose al tradens (nella loro integrità) entro il termine prestabilito.
Decorso l’evocato termine viene meno la suddetta facoltà (A. DALMARTELLO, I contratti delle imprese commerciali, 3a ed., Padova, 1962, 468 s.), con il consequenziale consolidamento dell’anzidetta obbligazione corrispettiva: in buona sostanza, il tradens mantiene la proprietà delle merci sinché il consegnatario non le abbia alienate, o – in assenza del negozio dispositivo esterno – fino a quando non acquisti egli stesso il ius in re pagando l’aestimatio, oppure dichiarando alla controparte di acquistarne la proprietà (così convertendo il ius disponendi in proprietà piena). Si può discutere – lo si noti soltanto obiter – se in tale ultima ipotesi l’effetto traslativo tragga fondamento dall’estimatorio oppure dall’esercizio del potere di alienazione esercitato dal consegnatario a proprio favore secondo il modello del contratto concluso con se stesso.
Il dante causa è legittimato a proporre l’azione di risoluzione del contratto, potendo alternativamente chiedere il pagamento del prezzo se il consegnatario, oltrepassato inutilmente il termine per la restituzione, non adempie l’obbligazione solutoria. Occorre tuttavia rammentare che questa interpretazione va incontro alle critiche di chi ritiene che il decorso del termine implichi il passaggio automatico di proprietà delle cose stimate.
Da questa cornice discende che il termine si eleva a elemento essenziale del contratto estimatorio: se non è stato pattuito, né possa essere desunto dagli usi, deve essere stabilito dal giudice ai sensi dell’art. 1183, 1° co., c.c. (v., diffusamente, G. BISCONTINI, Del contratto estimatorio, cit., 199, il quale osserva che siamo di fronte a un termine di adempimento, ivi, 201; L. BIGLIAZZI GERI, U. BRECCIA, F.D. BUSNELLI e U. NATOLI, Diritto civile, 3, Obbligazioni e contratti, Torino, 1990, 605; O. CAGNASSO, G. COTTINO, Contratti commerciali, in Tratt. Cottino, Padova, 2000. 100; A. DI MAJO, Termine giudiziale e contratto estimatorio, nota a Cass., 4 gennaio 1974, n. 9, in Giust. civ., 1974, I, 893; C. GIANNATTASIO, Mancata fissazione del termine per la restituzione, nota a App. Napoli, 19 febbraio 1970, in Dir. giur., 1970, 925; M. SARALE, Il contratto estimatorio tra vendita e atipicità, Milano, 1991, 101; conf. Cass., 21 aprile 1979, n. 2235). Si consideri che l’essenzialità del termine non è contraddetta – come talvolta sfugge a qualche interprete – dalla sua determinabilità ex post.
Con riguardo alla controversia da cui abbiamo preso le mosse, importa bene considerare che i giudici supremi approvano, e pour cause, l’interpretazione integrativa del testo contrattuale accreditata dalla regola su menzionata. Mai come in questa materia gli interessi giuridico-economici destinati a essere soddisfatti tramite l’estimatorio giustificano che il termine per l’adempimento assuma la fisionomia di essentiale negotii. È fuori discussione che ci troviamo di fronte a un contratto di durata incompatibile con il brocardo «quod sine die debetur, statim debetur».
Si continui a osservare che attraverso la legittimazione a disporre il consegnatario trasferisce la proprietà delle merci al terzo acquirente. Ma – lo ha segnalato la letteratura che si è dedicata allo studio del mandato a vendere (sia consentito rinviare a R. CALVO, La proprietà del mandatario, Padova, 1986, 180 ss.) – detta legittimazione non sottintende in capo all’alienante il diritto di proprietà sulle cose negoziate. Ritenere che per effetto dell’efficace esercizio del potere di disporre passi il dominio, sebbene per un solo istante, nella sfera giuridica del consegnatario, significa costruire un’ipotesi teorica basata su finzioni. Bisogna allora riconoscere che l’effetto reale intercorra recta via fra consegnante e terzo, similmente a quanto succede – ad avviso dell’orientamento minoritario – nel mandato a vendere. Se così, il consegnatario-venditore risponderà dei vizi materiali del bene verso l’acquirente, mentre per quelli legati al ius in re – nei limiti in cui non possa trovare piena applicazione l’art. 1153 c.c. – risponderà il tradens. La conseguenza è suffragata dalla tratteggiata scissione fra effetto reale (tra proprietario-tradens e acquirente) ed effetto obbligatorio (fra venditore-accipiens e compratore).
Tornando alla vicenda oggetto di sindacato giudiziale, la parte consegnataria non ha pagato il prezzo dei preziosi presi in consegna, il quale – come si ricorderà – non fu neppure determinato dalle parti. I giudici di appello ritennero che siffatto elemento potesse essere integrato ex post dal tradens. La S.C. – pur senza eseguire alcuna correzione ai sensi dell’art. 384, ult. co., c.p.c. – afferma che ai fini della validità ed efficacia dell’estimatorio, basta che le parti si siano accordate sulla facoltà dell’accipiens – che non è dedotta, si osservi incidentalmente, in obligatione – di restituire la cosa anziché pagarne il prezzo, essendo dunque irrilevante che si sia ex ante proceduto all’aestimatio rei.
Orbene, si può concordare sul principio; ma rimane irrisolto il dilemma sul come supplire la lacuna. I giudici di legittimità non si occupano infatti della questione sul come sia possibile completare il frammento mancante. L’additata omissione, che crea una frattura logica indebolente l’autorità del precedente giudiziale (art. 65, l. ord. giud.), è tanto più grave in quanto si osservi che il collegio di merito ha riconosciuto al consegnante il potere di determinare il prezzo, senza preoccuparsi d’identificare la fonte normativa di siffatta legittimazione.
È noto che la parte è legittimata a definire autonomamente l’elemento incompleto del contratto tramite «autoarbitraggio» quando siano almeno determinati i criteri direttivi dell’atto unilaterale d’integrazione del regolamento d’interessi privati (per maggiori ragguagli sia consentito rinviare a R. CALVO, Diritto civile, II, Il contratto, Bologna, 2015, 203 ss.). Sennonché, è ugualmente noto che il legislatore ha dettato in subiecta materia una disciplina particolare in tema di vendita; su di essa la Corte regolatrice sorvola del tutto, creando in tal modo una sensazione di disorientamento, resa vieppiù intensa dall’affermazione del collegio di merito, attribuente al tradens un potere che non parrebbe andare incontro a limitazioni.
Le parti della compravendita possono affidare la determinazione del prezzo a un terzo arbitratore, eletto nel contratto o da eleggere in séguito. Il terzo, ai sensi dell’art. 1349 c.c., è autorizzato dai mandanti a integrare e arricchire il regolamento secondo equità o, in alternativa, mero arbitrio.
Il prezzo deve essere determinato tenuto conto dei valori esistenti all’epoca dell’accordo, salvo che le parti abbiano diversamente disposto. La disciplina ispirata al favor contractus, venante lo statuto della compravendita, implica che, a prescindere dalla tipologia di poteri assegnati all’arbitratore – e quindi anche in caso di arbitraggio mero, non potendosi applicare in questa costellazione di regole e princìpi la sanzione di cui all’art. 1349, 2° co., c.c. (C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, I, 2a ed., in Tratt. Vassalli, Torino, 1993, 527; F. GALGANO, Trattato di diritto civile, II, 2a ed., Padova, 2010, 588. Contra A. DALMARTELLO, I contratti delle imprese commerciali, cit., 406; G. D’AMICO, La compravendita, I, in Tratt. Perlingieri, Napoli, 2013, 103; P. GRECO, Lezioni di diritto commerciale. I contratti, Roma, 1958, 35; A. LUMINOSO, La vendita, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 2014, 277) –, se questi non vuole o non può accettare l’incarico, oppure se le parti non si accordano per la sua nomina o per la sua sostituzione, la nomina, su richiesta di una delle parti stesse, è fatta dal presidente del tribunale del luogo in cui è stato perfezionato l’accordo traslativo (art. 1473 c.c.).
Il contratto si estinguerà se l’elemento mancante, la cui determinazione è stata affidata al terzo, non viene definito entro l’ordinario termine di prescrizione (altro discorso deve ovviamente farsi riguardo alla prescrizione del diritto di ottenere il pagamento).
Fissate queste basi, la denunciata lacuna affiorante dalla decisione di legittimità pare suscettibile di essere ragionevolmente colmata – in aderenza all’insegnamento proposto da una parte della dottrina – estendendo al contratto estimatorio la lex specialis appena delineata ex artt. 1473 e 1474 c.c. (A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, cit., 478; P. GRECO, Lezioni di diritto commerciale. I contratti, cit., 225; contra N. VISALLI, Il contratto estimatorio, Milano, 1964, 251 ss.).
Secondo alcuni autori (G. COTTINO, Del contratto estimatorio. Della somministrazione, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, sub art. 1556-1570, Bologna-Roma, 1970, 48 s.; cui si allinea fedelmente M. SARALE, Il contratto estimatorio tra vendita e atipicità, cit., 85), non sarebbero applicabili gli artt. 1473 e 1474, 3° co., ult. parte, c.c., essendo nella natura delle cose sottesa dal vincolo ora studiato che il prezzo debba almeno essere conoscibile dall’affidatario all’istante della dazione. Altrimenti tale parte rischierebbe di lavorare per nulla, non potendo programmare le chance di guadagno conseguente alla programmata vendita delle res appartenenti alla controparte. Noi invece non ravvisiamo ostacoli ad applicare queste ultime norme al rapporto estimatorio, assodata la loro inclinazione al favor contractus e alla sicurezza degli scambi commerciali. Vero è che le evocate esigenze e finalità permeano entrambi i tipi contrattuali: di lì il presupposto logico per accreditare l’interpretazione estensiva che siamo patrocinando. È indubbio che la mancata predeterminazione del prezzo sia fonte d’insicurezza a scapito dell’accipiens per quel che riguarda il progetto speculativo. Nondimeno – si osservi conclusivamente – è altrettanto lampante che essa non basta a cagionare la caducazione del contratto o a precludere l’estensibilità delle regole che precedono.